*(Considerato che sto al mondo da 15mila e 500 e pussa giorni e che, in media, una crisi ogni due mesi ce l’ho avuta, no?)
Il gatto annaspava quasi compiaciuto, credendo che l’affogare in una profondità straordinaria gli togliesse il respiro e facesse di sé l’eroe di una incredibile ed indimenticabile avventura.
Invece si era semplicemente rotolato, cadendo accidentalmente a muso in giù, in una fangosa e banalissima pozzanghera che, in condizioni normali, nemmeno gli avrebbe bagnato la coda.
Altro che togliere il respiro, pensa il gatto sbadigliando un insignificante vuoto.
Sono triste anche, non me ne abbiate. Molto triste.
I ricordi si ancorano agli oggetti, ai luoghi, agli odori, alle canzoni. E anche al calendario.
Come ho già scritto da qualche parte, è una cosa stupida: uno non si ricorda di qualcosa aprendo l’agenda. Ma tant’è l’agenda viola la guaina protettiva del quotidiano che schematicamente ed inesorabilmente avanza, occultando abilmente l’insidiosa interiorità (che ha ritmi, contenuti e sospesi tutti suoi), mettendo in bella vista cifre, mesi, nomi legati a tragedie e/o meraviglie personali.
Cosa ho fatto in quest’anno così intenso ed impegnativo?
Ho imparato qualcosa da quello che è successo?
Forse si. Direi di si. Ma certe pecche le ho mantenute. E anche nutrite.
Non ho vinto ancora il senso di colpa. Non ho vinto alcune debolezze, non ho superato il bisogno della conferma, non volo ancora con le mie ali insomma.
Sono delusa. Attenzione: so perfettamente che la delusione è la diretta conseguenza di un’illusione. E l’illusione ce la facciamo in casa noi stessi per cui nessuna accusa a chissachì, solo un amarezza che serpeggia sotto la superficie.
Sono delusa da me stessa quindi, dalle mie scelte oniriche: solo dormendo capita di sprecare così tanta energia per progetti sterili, disegni vuoti. Prima ci si sbatte senza risparmio per costruire un’idea, poi ci si consuma per smontarla, lavoro fatto con fatica e riluttanza perché ai propri mostri, si sa, ci si affeziona sempre. Ho costruito una casa su un terreno franoso. Che intelligente.
Quando l’ho fatto, è evidente, non c’ero. Tuttavia, anche ora, ad occhi aperti, l’esorcismo è veramente molto doloroso.
Mi capita di iniziare a piangere pensando a qualcosa, per poi continuare il mio pianto per tutt’altro. Piangere (curiosa coincidenza) è come sbucciare una cipolla: il blob energetico da buttare fuori se ne va e rivela un’altra botola segreta, che appare insidiosa e graduale come una casa lontana nella densa nebbia che si consuma pian piano.
Scrivere mi fa lo stesso effetto.
Ora che sono saltata di palo in frasca passando da mia madre ad altri personaggi e viceversa, ad esempio, inspiegabimente so cosa devo fare.
A volte la morte di mia madre mi sembra un evento totalmente senza senso, inspiegabile, ingiusto, tramortente e crudele. A volte (nessuno inorridisca per favore, ho già i miei bravi e giganti sensi di colpa per questo) mi pare una cosa giusta, perfettamente inscritta nel disegno che non ci è dato di percepire per intero.
Ed è qui che mi chiedo quale traccia sono io, di questo immaginifico Progetto. Quale riga sono? Sono una linea? Sono una curva? Sono una parte chiara? Una scura? Sono un colore? Un vuoto? Un armonioso arabesco?
Andrò a stirare ma invece di pensare cercherò di imparare qualche pezzo dei DM (il 18 c’è il concerto e io sono quella che non sa mai nemmeno una parola) così mi distraggo adolescenzialmente.
Va bè ragazzi, mica si può sempre ridere.
E comunque sono lavori che non finiscono mai.