Cose che ancora non capisco

Premessa: nel Giugno del 2007 a mia madre viene diagnosticata una malattia incurabile, terribile, fatale. Di quelle che se hai anche una sola speranza, nella maggior parte dei casi, significa che ti illudi.
La donna che, oltre ad avere con me il più stretto legame di sangue possibile, ha avuto e ha tuttora la mia massima stima e tutto il mio amore, mostra a noi e al mondo il suo cuore e la sua forza vivendo molto al di là delle aspettative di tutti.
Dei medici, di sicuro.
Negli ultimissimi giorni della sua esistenza terrena viene assistita anche da un gruppo di infermiere della locale ASL che si occupano dell’assistenza domiciliare. Mi ricordo i nomi di tutte. Ma il contatto cruciale, in quello che sto per dire, si chiama Michela.
Michela quasi un anno fa, mi contatta per coinvolgermi in un progetto di volontariato a favore delle persone colpite da questa malattia. Lo fa con cautela e con molto tatto pensando che per me è ancora troppo presto. Che forse non voglio nemmeno sentir parlare di Mostro. Si, “Mostro”, perché anch’io come molti rabbrividisco al solo nome e non lo pronuncio senza un certo disagio. Proprio come faceva mia madre, quando capitava di parlarne o quando si stabiliva l’offerta annuale per il sostegno della ricerca.
In realtà, dopo aver vissuto quello che ho vissuto a fianco alla persona biologicamente, affettivamente e primordialmente più legata me, credo di essere in grado di affrontare grandi cose.
Comunque, tornando alla cronologia degli eventi, posseduta dal rifiuto verso il concetto stesso di Mostro, piuttosto che dai ricordi tristi e difficili che tuttora sento riaffiorare, non mi presento nemmeno a una delle riunioni di questo gruppo che, in quel periodo, si stava pian piano costituendo. Dimenticandomene o, semplicemente, prendendola alla leggera, come se si trattasse di scegliere se andare o meno a vedere un film qualunque in una sera di noia.

Michela è tornata a proporsi qualche tempo fa.
Io ho detto di si, semplicemente. E stasera ne vengo da un incontro bellissimo che mi ha lasciato, tra tante altre cose, uno scomodo interrogativo a cui non so dare una risposta.
Ho ben compreso il senso della parola volontariato.
Volontariato è Servizio.
Quello che non capisco – per niente – è cosa c’entro io con questo concetto.
Abituata da tempo alle esplorazioni interiori, riesco ad essere abbastanza onesta da riconoscere che il Servizio non è il fattore antagonista e risanatore del senso di colpa. Non è nemmeno la strada scomoda per una sospirata e travagliata autostima. Il Servizio non è una via di fuga dalla responsabilità verso se stessi. Il Servizio non è il pretesto che sdogana un gratuito ed illusorio senso di superiorità.
Il Servizio non è il tappo per i nostri buchi, insomma.
Io mi sento ancora una persona immatura in questo senso. Egoista.
Infastidita dalle mie mancanze e dipendente dai miei bisogni.
Io mi sto chiedendo perché vado a questi incontri quando, pur essendo convinta della bontà dell’iniziativa, non sono affatto convinta dell’opportunità della mia presenza. Mi sto chiedendo cosa c’entro. Io non sono così elevata e disinteressata. Non ancora. O, comunque, non mi sembra.
Sebbene abbia avuto la fortuna di conoscere, qualche volta, la gioia di fare qualcosa per gli altri gratuitamente ed incondizionatamente, sono eternamente rosa dal tarlo del dubbio che dietro a questo mio tentativo di “dare”, ci sia ancora una bambina che mendica attenzione, amore e conferme facendo “la brava”.
Perché, certa che le cose non capitino a caso, mi sono chiesta se l’Altro veda davvero in me una risorsa utile e in che modo. E questa è la dimostrazione che il mio “servire” è ancora allo stadio di subdolo alibi: io sono una persona, un numero – nel senso buono -, forza buona per fare gruppo. Non dovrei chiedermi nulla: esserci e basta. Esserci e fare quello che serve.
La pretesa di individualizzare e specializzare la mia presenza in quel gruppo – che ha senso solo per il fatto che sono la familiare di una persona colpita dal Mostro – rivela con molta chiarezza che non sono nemmeno ancora al primo gradino di questa scala di umanità e di Amore.

Però, non posso che salire.

13 pensieri su “Cose che ancora non capisco

  1. è una bellissima apertura, tutti nel passato, nel presente e sicuramente nel futuro, facciamo riflessioni e scaviamo con onestà nel nostro intimo più nascosto, per ascoltarci, per trovare risposte, per sentire quello che siamo, ma che poche volte riusciamo a essere veramente. a volte si sale un gradino e poi si torna indietro. il timore, la timidezza e forse anche la paura troppo spesso ci seguono come ombre e nemmeno ce ne rendiamo conto. non serve fare i bravi per gli altri, perchè noi tutti siamo quello che siamo e quando meno te lo aspetti, c’è sempre qualcuno che sa riconoscere la bellezza che vive in ognuno di noi. restiamo sorpresi, sorpresi perchè qualcuno ci ha visto, sorpresi perchè noi stessi non abbiamo riconosciuto alcuni aspetti del nostro essere, basta aprire una porta e varcare la soglia, siamo unici e limpidi perchè sappiamo essere e abbiamo il coraggio di essere.

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  2. Mi hai commosso. Brava. Non puoi che salire. E’ da tempo che mi dico che dovrei salire anche io, in quel contesto. Ma ho paura, la solita paura dell’ignoto e di non essere all’altezza.

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  3. Lupis: cosa si dice della paura?

    Lolli: la paura dell’ignoto non ci mollerà mai, ma possiamo ridimensionarla focalizzando ciò che dell’ignoto ci garba: la possibilità, il nuovo, l’opportunità, la scelta, il cambiamento.
    La paura di non essere all’altezza mi ha tarpato le ali da sempre e un pò continua a farlo.
    Ma è chiaro che non può avercela vinta.
    Anche perché è originata da un’ottica sbagliata.
    Insistiamo sempre nel paragonarci agli altri dimenticando che siamo unici e, nella nostra peculiarità, imparagonabili!
    Ciao Mordimi Cane!!
    Gatty

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  4. sì Gatty,

    in effetti la paura dell’ignoto o di chissà che altro ti ha sempre fatta su come un salame!

    questa tua fissa di non essere all’altezza continua a perseguitarti, vale la pena di mandarla in soffitta una volta per tutte

    questa potrebbe essere una ghiotta occasione per farlo, ti ci vuole solo una piccola “leva” per sollevare questo tuo “mondo interiore”, una sorta di escamotage, un barbatrucco, una scorciatoia, un bypass …

    forse potresti convincerti di “partecipare” a questa iniziativa senza sentirti “impegnata” a farlo, sai come si usa dire, fai finta che “oggi passavi di lì per caso …”
    forse (come capita anche a me) l’idea di “prendersi un impegno” ti “pesa” di più che l’impegno in sè stesso,
    forse non hai ancora sdoganato il giudizio altrui nei tuoi confronti, qualunque esso sia, e ti fai mille paranoie inesistenti

    siamo quello che siamo punto e basta, e quello dobbiamo essere, mica altro!

    tutti abbiamo qualcosa da dare e da ricevere, è inimmaginabile dover dare qualcosa “di altri”, diamo quello che abbiamo e che è “nostro” a chi vediamo che ne ha bisogno (e solo a quelli, non a tutto il pianeta), il resto lo darà qualcunaltro …
    noi, se ciò che in quel momento serve “non ce lo abbiamo” non dobbiamo farcene cruccio, non è colpa nostra (posto che la “colpa, colpa, mia grandissima colpa” l’ho fortunatamente bannata da tempo!) non giova nè a noi, nè a quelli con cui ci relazioniamo

    Gatty, fattene una ragione e tira fuori il felino che c’è in te!

    miaoooooooo 🙂

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  5. Le tue esortazioni e la tua interpretazione non fanno una piega.

    La cosa invece che c’entra marginalmente ma che mi ha lasciata di sasso (il famoso Gatto di Marmo..) è l’accenno al cattolico “mea culpa” a cui non avevo mai fatto caso. E dire che di messe ne ho sentite migliaia. Prima.
    E’ veramente pazzesco!
    CI PROGRAMMANO.
    Il Gatto vorrebbe insorgere e fare uno spiegone al riguardo ma ha poco tempo e poi la cosa si descrive da sé.
    (Personalmente, salvo solo il Padrenostro).
    Per il resto ci vorrebbero secoli di pulizia mentale.
    Io, nel mio piccolo, ho cominciato.

    Senti individuo dai mille nomi… è vero che curiosity kills the cat, però potresti anche farti riconoscere una volta..

    Vado a cuocere le verdurine.
    Miaaoooooooo

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  6. Concordo col Punto di Svista: “passa lì per caso” è la tattica migliore, senza troppe spremiture mentali su come, dove, quando e perchè. I miracoli accadono continuamente, è solo che troppo spesso siamo girati a guardare dall’altra parte! Se rimani vigile e arriva una richiesta, cogli la tua risposta interiore, senza il frapporsi della mente, respira 1,2,3,4,5 volte consapevole e poi decidi. Se la richiesta arriva a te, sei sempre la persona giusta nel posto giusto al momento giusto. Il resto è solo la nostra tendenza a complicare e resistere. Buono scorrere! 😉

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  7. Nel caso un giorno il cielo esplodesse
    tu mi terresti le mani calde
    almeno sino a quando il peggio sarà passato?

    Nel caso un giorno non credessi più a niente
    tu sapresti aiutarmi a correre ancora da sola
    desiderando ogni bene per me stessa?

    Senza più sensi di colpa
    niente più sensi di colpa

    Salvami dalla realtà quando arriva l’eclisse
    Salvami dalla realtà

    Nel caso un giorno non bastasse il tempo per
    poterti spiegare la ragione dei miei tormenti
    tu potresti comunque, sapresti capire?

    Salvami dalla realtà quando arriva l’eclisse
    Salvami dalla realtà e lasciami

    Senza più sensi di colpa
    niente più sensi di colpa
    senza più nessun senso di colpa

    Nel caso un giorno il cielo esplodesse…

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  8. « […] Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all’altro. Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona e, se l’inseguiamo, sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma. […] »
    (Blaise Pascal)

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