Due occhi leggermente annacquati e un filo di saliva trasparente sul bordo
dei denti inferiori.
Un’espressione vagamemte interrogativa, sempre dolce, a tratti complice.
La stretta della mano che pian piano si addolcisce.
Come vorrei sapere i tuoi pensieri.
Per un periodo sapevo di averne paura, mi andava bene così insomma.
Ma ora rimpiango la tua piena coscienza. Vorrei. Sarei pronta.
Perché so che la maggior parte delle volte in cui ci vediamo, la coscienza c’è.
La percepisco, la sento.
Che fine hanno fatto le parole? Impigliate in circuiti che non hanno mantenuto
la continuità.
Intrappolate nella carne, tradite da una chimica avversa e da un’elettricità
che sobbalza, cede, che fulmina anziché condurre.
Che belle le tue mani. Che pura la tua risata.
Che peccato non essere stati capaci di amarci quand’era tempo.
O forse ci amavamo ma non lo si capiva. Né tu, né io.
Ora entrambi ci stiamo ripulendo.
La mia Nigredo è fatta di fuoco sottile.
La tua, è un esercito di tarme metaforiche che assottigliano la sostanza fisica.
Quel luogo preciso dove s’annida la parte grossolana e terminale della mente.
E così diventiamo bambini. Diventiamo essenziali. Diventiamo semplici.
Qual’è la tua lezione? E qual’è la mia, relativamente a te, al fatto che ti vivo così fortemente ora, fin dentro le ossa?
E’ una riconciliazione questa?
Si fa un gran dire che la gioia è data dall’amare piuttosto che dal sentirsi amati.
Non sono del tutto convinta di questo fatto.
Ma certamente scoprire di essere capaci di amore a questa intensità,
fa dimenticare voci interiori moleste che sostengono il contrario.
Insomma dopo tutti i doni che mi hai fatto, riesci anche a farmi questo.
Grazie.
Ratu.