Lo scarabeo. Poi sono andata fuori tema.

Che poi non so se è uno scarabeo. Ma nel mio mondo voglio che lo sia perché non mi pare importante attribuirgli un nome scientificamente esatto

Insomma stamattina, appena scesa dal treno, vedo lui. Mi fermo per guardarlo. Mi accuccio per fotografarlo mentre gli altri pendolari mi passano accanto e la collega che viaggia con me mi aspetta poco più in là, pazientemente. Lo pubblico, entusiasta del ritrovamento, sul mio profilo social.

Ora lo so bene, a 53 anni e fischia, che come non possiamo piacere a tutti, nemmeno le cose che ci piacciono possono piacere a tutti. E che in certi casi, molti, nella loro esistenza corretta e dai tratti opportuni, possono pensarmi stramba. Non è questo il punto. E non è nemmeno la soggettività del bello e della legittima gradazione dell’apprezzamento che – per fortuna! – è individuale ed unica per ogni occhio che vede ed ogni cervello che traduce la luce percepita.

È che mentre rispondo giocosamente ai vari commenti rifletto su quanto io sia cambiata in fatto di gusti, di giudizi, di considerazione delle cose e degli eventi.

Ho capito che la Bellezza è un fatto di accettazione.

Percepire la Bellezza è l’abilità di saper integrare, più o meno coscientemente, ciò che percepiamo. Accettarlo. La Bellezza è la facoltà di considerare qualcosa sospendendo il giudizio. Un paradosso.

Poter vedere il bello è sapersi elevarsi per un attimo al di sopra della nostra storia, delle memorie, delle abitudini, dell’esperienza e delle cicatrici. È spalancare gli occhi nell’ignoto e lasciare che esso si manifesti. Bello è osare vivere e fare esperienza.

Poiché può rivelarsi bello anche ciò che prima abbiamo conosciuto come orrendo. Il brutto può essere bello, bellissimo, se comprendiamo che ha il suo posto nel mondo e che, molto spesso, questo posto si trova esattamente dall’altra parte dello specchio in cui ci sorridiamo credendoci puliti e buoni.

La Bellezza può essere un’armonia di disarmonie. Certo, con dei limiti che rendano l’esperienza umanamente sostenibile per chi osserva, pensa o agisce.

Il caos e la disarmonia sono il retro del tappeto dove nodi e salti cromatici sono soltanto la radice di una fioritura che esplode altrove.

La disarmonia, di fatto è vita. Nell’eterno bilanciamento del mondo fenomenico, uno scarto produce movimento continuo. La dinamica delle cose consente la vita. È la vita, è sempre bella.

Come lo scarabeo, con quella sua incredibile corazza nera che nasconde un palpito di esistenza. Sacra.

Boh. Stasera ho bevuto solo una birra.

La cosa giusta da fare (storia noir)

È Pasqua, ho finito di riordinare casa dopo la partenza dei nipoti ed esco sul terrazzo per rilassarmi un po’.
Prima di sedermi sulla poltroncina, mi cade lo sguardo sulla colonnina di marmo qui vicino e vedo una vespa sul bordo che si muove a fatica, molto lentamente.

Come al solito non mi faccio gli affari miei e con un pezzetto di cartone la prendo per metterla in un vaso, sulla terra, dove sta ricrescendo l’erba di San Pietro.
Non appena posata sulla terra si rianima un po’ ma presto capisco che lo fa perché cerca di risalire verso la luce. Tenta di arrampicarsi sul bordo del vaso di plastica ma scivola e ricade continuamente all’indietro.
Capisco di essere intervenuta a sproposito – come spesso accade – e mentre studio come aiutarla senza farle male, lei trova un appiglio utile nel gambo di una giovane foglia.
Risale la foglia. Per non farla precipitare la faccio appoggiare sul cartoncino che poi metto giù sul mobiletto qui a fianco.
Muove piano le antennine e nel giro di mezz’ora si sposta di pochi millimetri.
Non ce la fa più.
Ha l’estremità di entrambe le ali danneggiata. É opaca. Sembra vecchissima. Ha un’aria antica e polverosa.
Sta per morire.

Mi da pena questa lenta e lunga agonia ma non sento di poter far altro che lasciarla stare.
Penso che la vita, rinascita o no, é un continuo divenire. La vita non ha sentimentalismi. La vita é anche morire.
Questa piccola creatura mi da una lezione esemplare, oggi, che é Pasqua.
La vespa mi toglie fronzoli e seghe mentali e – scritto a parte che é proprio della mia natura – mi insegna a vivere il tempo.

Mentre scrivo questo, dandola per spacciata, riparte in picchiata, veloce e malferma, si avvicina al bordo: sta per fare un volo di 80 cm. Lascio che sia, stavolta, mi dico.
Cade e riparte con un andatura folle e penosa lungo la riga scura della pavimentazione.
Gira di colpo verso il marmo chiaro, verso il il bordo della ringhiera.
Verso la luce, che stavolta è il vuoto.
La blocco, ma lei insiste. Ok.

Vola giù dal quarto piano.
Non avrei potuto vederla da quassù se non fosse che subito si precipita un merlo (credo sia un merlo, tutto nero) a beccare qualcosa, tre o quattro volte, e questo qualcosa si muove ancora. Evidentemente non la trova interessante e la lascia a terra.
Naturalmente vado giù, armata di foglio di carta per raccoglierla, viva o morta.
È decisamente agonizzante, poverina.
Non sta più in piedi e si contorce.
Penso come possa essere brutta una simile fine e mi dico: lasciarla morire sulla pietra del cortile?
No. Ok che ognuno ha la sua strada e la sua storia. Anche e soprattutto un insetto giusto perché ci è quasi sempre invisibile.
Ma, pur dubitando della sanità del mio pensiero, la riporto su perché finisca nella terra.

Perché? Perché intervenire ha un senso. A volte l’essere rigidi nel non voler interferire sconfina nell’indifferenza. E questa non è mai un bene.
Io spesso sono indifferente un po’ per paura un po’ per ignoranza. Colgo l’occasione per fare un primo passo.
La situazione è palese. Non credo di andare contro natura.
É poggiata nel vaso di prima. Ora ha smesso di tremare.
Farò un piccolo buchetto per lei.

Per sicurezza soffio e lei reagisce muovendo lentamente e meccanicamente una zampa.
La vera pietà sarebbe ucciderla?
Com’è difficile fare la cosa giusta!

Forse non c’è la cosa giusta da fare.
C’è solo il fare e la responsabilità di aver scelto.

Ricontrollo: è andata.
La sistemo nel vaso.

La Vita è tutto un entrare ed uscire di scena.

La mareggiata

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Una, due, tre e a volte quattro strisce bianche e spumeggianti.
L’acqua nel tumulto si polverizza e crea una specie di foschia.
L’aria alla luce dei lampioni è lattiginosa ed è satura di salmastro.
Viene voglia di chiudere gli occhi e respirare a pieni polmoni.

Il mare fa rumore.
Un rumore continuo, rabbioso e sommesso allo stesso tempo, scandito da un ritmo regolare
ed ipnotico. Ogni tanto, lo schiaffo di un’onda che si arriccia e spancia su se stessa
qualche metro prima della riva.
Mi affascina. E l’umidità dell’aria procura piacere anziché fastidio.
Qualcosa di primitivo sembra nutrirmi i sensi ed appagare qualcosa di più profondo che non so definire.

La notte rende tutto ancora più sublime e consente all’Ombra di intersecare , con i suoi flutti, le trame di una veglia che sembra sempre più flebile.
Nulla di oscuro, in realtà.
Qualcosa di molto naturale e quindi assolutamente neutro.
Il mare agitato. Un piacere che può uccidere.
Nessuna negazione, ma la completezza di una vita totalmente accettata.
Una specie di utopia una volta ricacciati sulla superficie del quotidiano e del moto convenzionale delle nostre vite.

Starei ore ad immergermi in questa trance, semplice e primordiale.
Parrebbe una specie di perdita di coscienza se non fosse che sento dentro un’acuta ed ineludibile certezza di essere.

V per vendetta


Era affiorata qualche anno fa ma in modo sottile. E fugace.
Fondamentalmente ciò che garantiva la sua repressione era il solito omnipervadente senso di colpa, la paura di essere cattiva e quindi non accettata ecc bla bla bla. Solite cose.

Poi ho maturato un’altra idea: lasciar sempre correre è un atto di presunzione pazzesco. Quando non è mancato coraggio, è, di fatto, una gran presunzione: quella di essere giusta, esente da difetti, insomma, migliore dell’antagonista.

Ma a pensarci, nel reagire con il nobile intento di mostrare all’altro i propri limiti, il dare ‘una lezione’ insomma, è altrettanto presuntuoso. Allora, che dobbiamo fare?
Credo che valga sempre la regola, prima di tutto, massima del non ferire mai l’altro.
Almeno, non intenzionalmente.

Tuttavia siamo tutti quanti ben lontani dalla perfetta integrazione con il tutto, tant’è vero che siamo incarnati quindi al mondo con l’onere di “fare una parte”.
Tra il non agire per paura, o viltà, o presunzione, e agire con intenzione di prevaricare e avercela vinta per fortuna esistono fasi intermedie.
Tipo rendersi conto che la Guerra è nella natura delle cose e negarla fa tanto male quanto parteciparvi da fanatici.

È una frase forte che si presta a critiche ma è il livello in cui mi trovo ora.

Credo sia giusto esprimere la propria posizione, se l’espressione è emotivamente e psicologicamente sostenibile.
Nessuna forzatura insomma.

Per me è stato importante ammettere di avere il desiderio di ‘vendicarmi’ o vendicare qualcosa o qualcuno (che poi è sempre vendicare se stessi perché rode a noi, stiamo male noi, mica la presunta vittima).
Ma non sono mai passata all’azione ne ci passerò mai anche se in certi casi sarebbe davvero facilissimo.

Sento che nel momento in cui mi rendo conto di tutto questo, posso fare un passo avanti proprio con l’energia maturata e successivamente trattenuta della mancata azione.
Quello che conta è non raccontarsi balle. Per il resto è auspicabile e costruttivo dominarsi.

Ma negare di voler per un attimo affondare la goletta di bandiera nemica è solo ricacciare in profondità un sano istinto di difesa.
Mai attacco gratuito ed immotivato.
Mai originare una dinamica di male.
Difesa. Sempre e solo legittima difesa.

Detto questo, nel tempo ho immaginato cannoni, bombe, raggi laser, metaforici e non.

Aldebaran

Aldebaran

È passata la mezzanotte.
Il mare tace e io mi riparo dall’aria fresca e tesa che viene dai monti sprofondando nella poltroncina.

C’è una minuscola luce che brilla insistente là in alto. La vedo nell’esatto momento in cui la mia sera si trasforma in notte, quando maturo all’improvviso la decisione di andare a dormire.

La stella pulsa.
Immagino tra me e lei, come in un sogno ad occhi aperti, o in una fantasia desiderata, un eterno spiraliforme time lapse in cui si susseguono implacabili e veloci sequenze di giorno/notte. Giorno e poi notte. E poi giorno. E poi buio. E poi luce. E poi ancora notte.

E poi vulcani. E immani silenzi. E sordi boati. Fuochi e fumo e spirali di nubi. E eserciti, e polvere, e cavalli al galoppo. E gelo, e ancora fuochi. E verde, e azzurro.
Cosa avete visto qui, voi Stelle, dalla notte dei tempi ad oggi?

Chiudo gli occhi e un vortice mi rapisce. Viaggio in un flusso di immagini, una wunderkammer immaginale che mi mostra tutto: un insetto, una radura, un cielo, una caverna, una piramide, un abisso, una foresta, una statua, un incendio, un mare calmo.
Cose che ho visto e cose mai viste di cui però percepisco l’esistenza.

Aldebaran, luce gloriosa, gigantesco sole, piccolo diamante sulla veste di Nut, sono minuscola, minima, infinitesimale, e ho visto te.
Tra tante stelle, stasera ho visto te.

Aldebaran, riapro gli occhi, sono qui, in questa piccola sfera azzurra e bianca e ti guardo.
Ti scruto dilatando al massimo le pupille nella speranza di intercettare il colore dei tuoi bagliori.

Sotto le Pleiadi, appena percepibili, la tua luce freneticamente intermittente mi pare una soglia.
Che non attraverso completamente per paura di perdermi.

Stella Fissa, pulsante – tu respiri -, senza tempo.
La brezza dei monti diventa un alito siderale, argenteo, e tutto rallenta.

Penso che il tempo vissuto nella forma sia contemporaneamente ingannevole e ambiguo e prezioso.
Fondamentalmente, non lo capisco.
Non ci trovo il senso, diciamolo.
Cioè, stare nel Tempo e farsi domande che lo trascendono sono attività incompatibili.

Il rumore di un’auto che passa mi desta da questo incanto.
O forse mi riassopisce, ricacciandomi in un gioco di ruolo di cui non ho ancora inteso il fine.

Buonanotte gatties

Un giovedì

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Come sono lontani quei giorni in cui pretendevo di stanare e combattere i mostri.

Ho un dinosauro di plastica viola sulla scrivania. Bruttissimo, poverino.
Ecco. E’ quel “poverino” che oggi fa la differenza.
Non diventerà forse mai bello. Ma saprò amarlo.

Ho buttato il guinzaglio a strozzo: se resisto e pretendo direzioni poco naturali, divento maldestra e strattono forte la corda.
Stringo il collo al coccodrillo. Ma a star male sono io.

Ora incontro in pace l’alligatore delle mie paludi.
Tento di parlarci. Lo concepisco. Me ne sto.
Ne prendo atto. Per me, ora, può pure restare.

Il suo collare è d’oro e ha pietre preziose: il rubino dell’energia, lo zaffiro della resa, lo smeraldo del naturale stare con quello che c’è, il diamante di una luce nuova.

Il suo collare è la mia corona.
E io amo tanto il mio coccodrillo.

Sono uscita un attimo e sono andata in riva al mare.
Non mi capacito di come la gente che abita qui (a partire da me!) non si regali ogni giorno 5 minuti per se in riva al Big Blue: la spiaggia era deserta.
A parte un uomo con le sue due canne da pesca piantate sulla riva. Due lunghi steli flessibili, un secchio, lui con le mani in tasca. E il sole, gia sceso dietro il promontorio, che proiettava striature rosa e arancio nell’ovest del mio orizzonte. Tenuamente, con una certa discrezione.

Ogni tanto, prima dell’imbrunire, lo faccio.
Scendo in spiaggia, vado vicina all’acqua di fronte ad un quadro dal fascino indiscusso ed indiscutibile, con l’idea di poter fare pensieri altissimi, eroici ed indimenticabili.
E invece mi ritrovo quasi sempre a restare immobile e vuota.
Incredibilmente vuota.
Di solito tocco l’acqua con una mano, e porto il salino sulle labbra, come un gesto senza senso eppure fondamentale.
Una specie di bacio, forse.
Un rito totalmente istintivo e inconscio.

Poi accade che diventa buio, quasi improvvisamente.
Il mare diventa più forte, più grande, più potente ma io non ne ho paura. Mi giro e torno in strada, rincuorata da un fortissimo senso di protezione e complicità, pattuito ogni volta con un ultimo sguardo al blu.

Son fortune.

Le fatiche del mattino (in braccio alla mamma)

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Il mattino è un tempo denso e ricchissimo.
Non voglio fare una citazione famosa, anche se la penso, perché Shining mi ha sempre fatto troppa paura.
Comunque si. La mattina “rende”.
Mi sono fatta una personale teoria al riguardo: appena sveglio, la mente, portatrice della tua storia personale, non è ancora scesa del tutto in te. Novantanove su cento sei pure uno che deve andare a lavorare. Quindi non ti è concesso il lusso di aprire voragini riflessive che alterano la percezione del tempo e spesso tagliano le gambe ad un sacco di azioni, sane e produttive.

La mattina presto poi, è magica.
Quel senso di esordio, di primordio silenzioso, è una stanza intermedia tra il conscio e l’inconscio dove, mentre l’automatismo ti salva consentendo i movimenti base, tu puoi tranquillamente continuare a Sentire.
A muoverti dentro sensazioni quasi tangibili fisicamente, come fossero la presenza trasmutata di personaggi di un sogno che non ricordi.
A percepire voci che non sono voci ma correnti vibrazionali che ti spiegano ciò che c’è in questo momento, in un modo che non sarai mai in grado di dire, raccontare o scrivere.
E sentire di esistere, di essere fortemente, tipico dei momenti miracolosi in cui riesci a non pensare.

Tutto molto bello, vero?
Si, però, popolarmente sono poche le persone che al mattino aprono l’occhio e si alzano dal letto, con gioia e senza alcun fastidio, pronte ad accorgersi e a godere di tutto questo.
Io NON sono un di quelle. Tranne in alcuni rari casi.
Alzarsi è un fastidio.

Me la sono spiegata con la mia pressoché totale assenza di disciplina.
Con la mia indolenza strutturale.
Con il fatto che ho tanti pianeti in dodicesima e, visto che non sono abbastanza illuminata da trascendere spiritualmente, ho bisogno dell’oceano indifferenziato di un diverso stato di coscienza (= dormire ancora).
Con il fatto (vero, peraltro) che non mi piace andare a lavorare perché vorrei fare l’artista senza orari.
Insomma di perché e percome ce n’è una fiera.

Ultimamente invece ho deciso per la versione psychiatria: la paura dell’ignoto e la sua impronta sulla nascita.
Non è forse una replica della nascita, la mattina?
Quando apri gli occhi e non sai chi sei (se hai riposato profondamente)..
La differenza è una: che il bagaglio mnemonico della tua vita precedente (ieri) è a portata di mano dopo pochi minuti.
Cosa non possibile con la vera nascita. (Peraltro, ve lo dico, in quanto material girl, metto in dubbio l’esistenza di un Ieri globale).

Io non mi volevo alzare da subito.
Dovevo nascere 10 giorni prima.
Non c’e stato verso: non uscivo in nessun modo. Volevo stare a letto ancora un po’.
Mi han tirato fuori, in ritardo, in una combinazione di condizioni coincidenti e sinergiche in cui due personaggi si davano man forte.
Una madre che teneva e che per mollare ha dovuto dormire (l’anestesia di un cesareo è un ottimo modo per non vedere).
Una figlia che se ne guardava bene dal mostrarsi, aveva paura e si rintanava.
Per dimostrare tutto ciò con forza, presentava il culo alla porta.

A parte che questo spiega tutta la mia vita e i miei atteggiamenti – in quanto le caratteristiche sono sempre globali: se nel centro è presente la luce di un certo colore, essa si rifletterà in tutte le facce del prisma… – credo che spieghi perfettamente il fastidio cronico e mai risolto che provo nel lasciare le lenzuola-grembo.
Al di la, naturalmente, del fastidio comune e condiviso di abbandonare un luogo morbido in cui ci si rilassa alla temperatura ideale: ‘piacere e dolore’ è il codice binario alla base delle scelte di tutte le creature.

Ho anche pensato, in un tentativo di risoluzione psichica che faciliti una successiva motivazione/disciplina, che forse appena sveglia avrei bisogno di stare un attimo in braccio alla mamma (no, non mi ci hanno messo subito).
Che mi dica che andrà tutto bene la fuori.

Infatti, una volta compreso questo, ho iniziato a dirmelo tranquillamente da sola e, diciamo, sento di aver fatto un altro passo avanti verso la bellezza della vita senza tante paturnie.
Psychiatria portami via.
Ciao gatties

(Foto di Gabriella Ruo)

Mi perplimo di venerdì pomeriggio

Non mi sento a casa da nessuna parte. E ne soffro.
Contemporaneamente emerge la mia vena nomade.

Ho paura di non essere mai all’altezza delle cose.
E mi ritrovo spesso in situazioni nuove.

Mi pare di morire senza dei punti fermi.
E mi getto nel vuoto come sospinta da qualcosa che non sono io ma che mi manovra da dentro.

Di tutti gli “io” che ospito, fosse quella cosa dentro – che spinge – il più saggio?

Procedendo

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Ci vorrebbe una foto.
Sono uscita a fumare una sigaretta sul ponticello.
Questa è l’ora che da origine all’imbrunire.
C’è un cielo spettacolare.
Nuvole striate color grigioazzurro, e rosa e mille sfumature che non so descrivere.
Sullo sfondo il Baldo che emerge da un nulla nebuloso e sottile.
Il baldo con i riflessi rosa. Un rosa tenue.
In alto gruppi di uccelli che si spostano verso il lago.
Tra loro un pennuto lacustre in direzione quasi contraria, grande, solitario, dal collo lungo.

La bellezza da ancora più senso alla vita.
Penso a papà che guardava il cielo esattamente come lo guardo io.

Penso che ormai mi è davvero impossibile restare in superficie, evitare i grandi perché e uscire da quella visuale globale, profonda, totale delle stagioni, della natura, di ciò che esiste e vibra, dei cicli dell’esistenza, della meravigliosa fortuna che abbiamo nel vedere le cose che ci sono così come le vediamo noi.

Come al solito uno “stare” in questo modo mi spaventa.
Ma non ha più senso evitare questo modo di essere per la stupida paura di morire da un momento all’altro.
Come se nella gioia, e senza tormenti, non avessi più motivo di vedere dei cieli simili.
E dire che non ho ancora visto niente.
Paura di morire o paura di vivere?
(7 gennaio 2015)

È passato più di un anno da questo scritto.
L’approccio al mondo fenomenico è lo stesso. Più intenso ancora, se possibile.
Ma quella paura di fondo sta svanendo lentamente.
Ogni giorno sento di meritare di più ogni cosa che mi viene incontro.
Ci trovo un senso, un legame profondo a ciò che sono e non so di essere.
La striscia di inconscio più vicina alla superficie emerge piano tra le maglie allargate dalla resa.
E dalla calma.
Arrendersi assertivamente, avesse un senso dire una cosa simile.
Dire ‘Si, ok. Va bene.’
Che relax!
Ho vissuto troppo tempo nella testa resistendo a mille cose: è ora di godersi l’incarnazione al 100%.
La pre-occupazione non ha senso.
Ciao gatti

Giamaica

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Ho fatto fatica, ci ho impiegato molto tempo e non sono del tutto sicura di esserci riuscita veramente, ma credo di essermi finalmente innamorata di questo posto.

Di questo luogo, molto bello di per sé, tanto da essere meta turistica gettonatissima,
mi accorgo soltanto ora.
A due passi da casa mi ritrovo meravigliata e invasa di luce.

Come per tutte le cose, l’oggettiva bellezza di un qualcosa o un luogo,
non può nulla di fronte all’incapacità di essere percepita.
Se chi guarda ha le lenti di un’interiorità disordinata e tesa,
non c’è meraviglia, non c’è colore, non c’è entusiasmo.

Ieri erano sassi.
Oggi somiglia sempre di più ad un paradiso.

(foto: spiaggia Giamaica, Sirmione)