Le fatiche del mattino (in braccio alla mamma)

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Il mattino è un tempo denso e ricchissimo.
Non voglio fare una citazione famosa, anche se la penso, perché Shining mi ha sempre fatto troppa paura.
Comunque si. La mattina “rende”.
Mi sono fatta una personale teoria al riguardo: appena sveglio, la mente, portatrice della tua storia personale, non è ancora scesa del tutto in te. Novantanove su cento sei pure uno che deve andare a lavorare. Quindi non ti è concesso il lusso di aprire voragini riflessive che alterano la percezione del tempo e spesso tagliano le gambe ad un sacco di azioni, sane e produttive.

La mattina presto poi, è magica.
Quel senso di esordio, di primordio silenzioso, è una stanza intermedia tra il conscio e l’inconscio dove, mentre l’automatismo ti salva consentendo i movimenti base, tu puoi tranquillamente continuare a Sentire.
A muoverti dentro sensazioni quasi tangibili fisicamente, come fossero la presenza trasmutata di personaggi di un sogno che non ricordi.
A percepire voci che non sono voci ma correnti vibrazionali che ti spiegano ciò che c’è in questo momento, in un modo che non sarai mai in grado di dire, raccontare o scrivere.
E sentire di esistere, di essere fortemente, tipico dei momenti miracolosi in cui riesci a non pensare.

Tutto molto bello, vero?
Si, però, popolarmente sono poche le persone che al mattino aprono l’occhio e si alzano dal letto, con gioia e senza alcun fastidio, pronte ad accorgersi e a godere di tutto questo.
Io NON sono un di quelle. Tranne in alcuni rari casi.
Alzarsi è un fastidio.

Me la sono spiegata con la mia pressoché totale assenza di disciplina.
Con la mia indolenza strutturale.
Con il fatto che ho tanti pianeti in dodicesima e, visto che non sono abbastanza illuminata da trascendere spiritualmente, ho bisogno dell’oceano indifferenziato di un diverso stato di coscienza (= dormire ancora).
Con il fatto (vero, peraltro) che non mi piace andare a lavorare perché vorrei fare l’artista senza orari.
Insomma di perché e percome ce n’è una fiera.

Ultimamente invece ho deciso per la versione psychiatria: la paura dell’ignoto e la sua impronta sulla nascita.
Non è forse una replica della nascita, la mattina?
Quando apri gli occhi e non sai chi sei (se hai riposato profondamente)..
La differenza è una: che il bagaglio mnemonico della tua vita precedente (ieri) è a portata di mano dopo pochi minuti.
Cosa non possibile con la vera nascita. (Peraltro, ve lo dico, in quanto material girl, metto in dubbio l’esistenza di un Ieri globale).

Io non mi volevo alzare da subito.
Dovevo nascere 10 giorni prima.
Non c’e stato verso: non uscivo in nessun modo. Volevo stare a letto ancora un po’.
Mi han tirato fuori, in ritardo, in una combinazione di condizioni coincidenti e sinergiche in cui due personaggi si davano man forte.
Una madre che teneva e che per mollare ha dovuto dormire (l’anestesia di un cesareo è un ottimo modo per non vedere).
Una figlia che se ne guardava bene dal mostrarsi, aveva paura e si rintanava.
Per dimostrare tutto ciò con forza, presentava il culo alla porta.

A parte che questo spiega tutta la mia vita e i miei atteggiamenti – in quanto le caratteristiche sono sempre globali: se nel centro è presente la luce di un certo colore, essa si rifletterà in tutte le facce del prisma… – credo che spieghi perfettamente il fastidio cronico e mai risolto che provo nel lasciare le lenzuola-grembo.
Al di la, naturalmente, del fastidio comune e condiviso di abbandonare un luogo morbido in cui ci si rilassa alla temperatura ideale: ‘piacere e dolore’ è il codice binario alla base delle scelte di tutte le creature.

Ho anche pensato, in un tentativo di risoluzione psichica che faciliti una successiva motivazione/disciplina, che forse appena sveglia avrei bisogno di stare un attimo in braccio alla mamma (no, non mi ci hanno messo subito).
Che mi dica che andrà tutto bene la fuori.

Infatti, una volta compreso questo, ho iniziato a dirmelo tranquillamente da sola e, diciamo, sento di aver fatto un altro passo avanti verso la bellezza della vita senza tante paturnie.
Psychiatria portami via.
Ciao gatties

(Foto di Gabriella Ruo)

Mi perplimo di venerdì pomeriggio

Non mi sento a casa da nessuna parte. E ne soffro.
Contemporaneamente emerge la mia vena nomade.

Ho paura di non essere mai all’altezza delle cose.
E mi ritrovo spesso in situazioni nuove.

Mi pare di morire senza dei punti fermi.
E mi getto nel vuoto come sospinta da qualcosa che non sono io ma che mi manovra da dentro.

Di tutti gli “io” che ospito, fosse quella cosa dentro – che spinge – il più saggio?

Procedendo

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Ci vorrebbe una foto.
Sono uscita a fumare una sigaretta sul ponticello.
Questa è l’ora che da origine all’imbrunire.
C’è un cielo spettacolare.
Nuvole striate color grigioazzurro, e rosa e mille sfumature che non so descrivere.
Sullo sfondo il Baldo che emerge da un nulla nebuloso e sottile.
Il baldo con i riflessi rosa. Un rosa tenue.
In alto gruppi di uccelli che si spostano verso il lago.
Tra loro un pennuto lacustre in direzione quasi contraria, grande, solitario, dal collo lungo.

La bellezza da ancora più senso alla vita.
Penso a papà che guardava il cielo esattamente come lo guardo io.

Penso che ormai mi è davvero impossibile restare in superficie, evitare i grandi perché e uscire da quella visuale globale, profonda, totale delle stagioni, della natura, di ciò che esiste e vibra, dei cicli dell’esistenza, della meravigliosa fortuna che abbiamo nel vedere le cose che ci sono così come le vediamo noi.

Come al solito uno “stare” in questo modo mi spaventa.
Ma non ha più senso evitare questo modo di essere per la stupida paura di morire da un momento all’altro.
Come se nella gioia, e senza tormenti, non avessi più motivo di vedere dei cieli simili.
E dire che non ho ancora visto niente.
Paura di morire o paura di vivere?
(7 gennaio 2015)

È passato più di un anno da questo scritto.
L’approccio al mondo fenomenico è lo stesso. Più intenso ancora, se possibile.
Ma quella paura di fondo sta svanendo lentamente.
Ogni giorno sento di meritare di più ogni cosa che mi viene incontro.
Ci trovo un senso, un legame profondo a ciò che sono e non so di essere.
La striscia di inconscio più vicina alla superficie emerge piano tra le maglie allargate dalla resa.
E dalla calma.
Arrendersi assertivamente, avesse un senso dire una cosa simile.
Dire ‘Si, ok. Va bene.’
Che relax!
Ho vissuto troppo tempo nella testa resistendo a mille cose: è ora di godersi l’incarnazione al 100%.
La pre-occupazione non ha senso.
Ciao gatti

Il tarlo (e gli esercizi di ripristino)

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Se aspetto che mi venga in mente qualcosa di intelligente per iniziare a pubblicare con regolarità e costanza, rischiamo le calende.
E allora niente. Ho un tarlo nel cervello.
Una quota cerebrale congelata in forme obsolete, sequestrata da protocolli ormai da soffitta, anzi, da discarica.
E il tarlo, in questa, indefessamente pasteggia.
Devo dedurre che continuerà a farlo finché la mia testa non sarà adeguatamente bonificata con volontà consapevole e costanza devozionale. (Il Dio di riferimento, in questo caso, sarei io).

I cunicoli scavati dal tarlo saranno, infine, mille milioni.
E tutto crollerà.
Le congetture franeranno, le linee guida si frantumeranno ed eventuali residui sensi di colpa, saranno già sgonfi da un pezzo. Ma questo si chiama Alzheimer.
Il Tarlo va stordito, sconfitto, estirpato.

La malattia si chiama Attaccamento Al Passato.
E oltre ad essere piuttosto sgradevole ha un titolo francamente troppo lungo.
Ma tra le pieghe del suo esistere, pessimo e dannoso, un suo senso ce l’ha.
Un utilissimo senso: mostrare gli errori per non rifarli più.
Se poi, come succede alla sottoscritta, si esercita la cretineria in loop, allora giriamo il tutto alla psichiatria. Ma l’attaccamento alla vita può fare grandi cose. Soprattutto se non hai i soldi per una seria terapia.

Un modo che mi piace è questo: ci si dispone ad analizzare eventi passati così come si rilegge un libro importante per la seconda (o terza) volta, dopo anni.
Rileggere i propri decenni con una coscienza nuova e con un’opportuna distanza dagli eventi è provvidenziale.
Fastidioso ma provvidenziale.
Certe evidenze prima mai riconosciute, stordiscono. Traumatizzano la Te che sei diventata, nel frattempo, sputando sangue, arrampicandoti sui ginepri e facendo quintali di fatiche inutili.
Ma quando l’oscillazione emotiva e l’uragano mentale si calmano, beh, digerisci la lezione e guardi di nuovo l’orizzonte.
E hai fatto un passo da gigante. Un altro.

ESERCIZIO: stampare alcuni punti salienti dei propri diari in un A4 verticale con testo disposto solo su una di due colonne.
Lasciar riposare i fogli per qualche settimana.
Rileggere l’opus gigantesca (il lavoro può durare una vita, se scrivete da una vita e siete delle drama-queens) immaginando che lo scritto sia di qualcuno a cui tenete parecchio tipo vostra madre, qualche vostro avo, un’amata sorella, ecc.
Rileggere quindi, e, nella colonna vuota, replicare per iscritto ad ogni stronzata galattica che state leggendo sulla colonna stampata, attingendo alla presunta maggior saggezza della vostra mentalità attuale.
Può accadere che vi si strabuzzino gli occhi, vi si allunghino i canini e orripiliate allegramente in ogni centimetro quadrato della vostra pelle.

Pellaccia che, nonostante tutto, avete portato a casa.
Vi assicuro che, in alcuni casi, per stare meglio bastano dieci righe tra mille.
Se avete culo di trovare quelle che si incastrano alla perfezione con la paranoia del giorno.
E ciao.

Ciao

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Ho avuto due blog in tutto. Questo è il secondo e l’ultimo.
Il primo ha fatto una brutta fine a causa della mia mentalità rituale del “fare fuori per cambiare dentro”: l’ho cancellato per voltare pagina.

Altri tempi, altra età. Nessun giudizio. Andava bene così.
Ora sono cresciuta (molto in età, mai abbastanza di coscienza) e sono maggiormente in grado di sostenere errori, vergogne e qualunque altra lagna che potete trovare qui sopra.
Non cancellerò il sito.
Ma cambio aria.

Non so quanto tempo passerò ancora in silenzio stampa.
In ogni caso, ci fosse qualche interessato alle mie elucubrazioni (non si sa mai) scriva l’indirizzo email nei commenti o se preferisce a gattointeriore-at-yahoo.it.
Non mancherò di comunicare l’eventuale nuovo indirizzo web.
Intanto grazie, grazie, grazie per questi 7 anni di condivisione virtuale.
Tutto finisce.
E se non finisce, necessariamente cambia.
Un abbraccio dal Gatto Interiore.

ToDo

aquilone
Fare. Non pensare.

Frase scritta diligentemente nella prima pagina delle mie agende dal 2001 al 2007.
Voglio dire, come al solito, prima che una consapevolezza mi esploda nella pancia mandando schegge ovunque e – per fortuna – fin nel cervello, questa mi appare sullo schermo dell’intelletto operaio e si traduce in sequenze verbali e concettuali dalle quali sono irresistibilmente attratta.
Delle quali subisco il fascino, come di una cosa ben descritta, chiara, scintillante
e tuttavia misteriosa.
Come di un oggetto perfetto, finito e pronto di cui non si conosce l’uso.
La lenta carburazione del mio essere fa di me un’ottima teorica di corposa sapienza
a cui manca il decreto attuativo.
Un interessante programma a cui manca il file .exe. O .dmg, come vi piace.

Quello che voglio capire.
Ho paura di non essere capace?
Ho paura di essere capace?
Ho paura del fallimento?
O del successo?

Sono giornate pesanti, queste.
Ma all’aquilone del mio sorriso non si è rotta più la corda.
Ciao gatti.

Ventotto maggio

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Oh, le cose vanno meglio. Ma mica ci si può dichiarare fuori pericolo per questo.
Mi sono seduta per terra in cucina. Brutto segno.
Almeno avesse il pavimento a scacchi di quell’antico inquietante e attraente sogno.

La cosa che mi fa più schifo di me è l’ingenuità.
Alla quale non crede nessuno.
La radice di tutti i miei mali.
Mi fa schifo e mi fa male.
Detesto la creduloneria, il mio bere tutto.
La buona fede. Sempre eh, non sia mai.
E una tardiva percezione della strategia e dell’arrangiamento jazz dei dati,
che rasenta il ritardo mentale.
Il fidarmi di tutti. Uno mi dice una cosa e io ci credo.
La fiducia smisurata in tutto, nella vita, nel tempo che passa,
nel campo delle infinite possibilità.

Mia madre me lo diceva un giorno si e l’altro anche.
“Perché sei ciula” mi diceva. Oppure “sei una tonna”.
Frasi come una condanna mista a rassegnazione.
Come vorrei oggi, dopo tutti questi anni, averla qui e risentire quelle frasi profetiche.
Frasi che oggi prenderei davvero in considerazione.
Come frustate, nella speranza di aprire gli occhi sul mondo reale,
prima che film e romanzi prendano il sopravvento per sempre.

Vorrei fare un corso di furbizia. E uno di economia.
C’è un giorno maledetto di due anni fa, che festeggerò per non dimenticare.
Da lì in avanti, passi falsi. Uno dietro l’altro.

E adesso mi risiedo per terra, ok?
Tanto finirò per trovare in tutto questo qualcosa di buono.
Ma mi si permetta il rasoterra. Altrimenti non trovo la lezione.
Buonanotte.

Atlantide

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E un giorno, senza preavviso, arriva il mattino a scostare il sipario polveroso e pesante.
Il sole irrompe. Sano, forte, fastidioso come una medicina necessaria e sgradita.
Troppi giorni di sola notte, davvero troppi.
E la natura ristabilisce bruscamente ciò a cui tende: un sano equilibrio.
Notti tranquille e giorni luminosi.

Nella vertigine e nel caos che preannunciano la guarigione,
inizia già una specie di frescura all’interno.
Il respiro diventa azzurrino, leggero, ampio e frizzante.
Parti del corpo non percepite da tempo pulsano, vibrano, tornano a vita.

Si arriva a questo.
Si arriva a questo, si.
Riconquistare parti perdute.
Riscoprire continenti dimenticati.
Ritrovare l’Atlantide di sé.

Buonanotte gattacci.

L’eterno ritorno

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Ho la febbre e mi sento libera dal “dover” fare tutte quelle cose normalmente ideate o pronunciate dopo, appunto, questa odiosa parola: “devo”.
Mi ritrovo qui con una rivista in grembo, approcciata come fosse un film o un seminario sulla ricerca di se stessi.
Sono un po’ annebbiata e le associazioni mentali corrono libere e velocissime e penso che molte cose di molti anni fa, sono tornate nella mia vita alla grande.
Tutto è ritornato: la lettura delle riviste con quel senso un po’ metodico e rituale. E con quell’infantile (infantile?) abitudine di strappare le pagine con le foto di una bellezza incredibile e con gli oggetti che mi piacciono molto.
Basterebbe aprire la cartellina blu, quella dove conservo i ritagli – che ogni tanto guardo – per capire chi sono.
E’ tornata, tanto per fare insospettabili esempi l’Eau Dynamisante di Clarins, diligentemente scritta nella lista di cose da comprare “prima o poi”, la ricerca dei profumi di Serge Lutens (e li ho trovati!), il cucire un po’ ogni tanto, il mettere mano ai pennelli, l’astrologia, una maggior cura del corpo (che ha un po’ risentito di questa specie di medioevo appena trascorso) e, in definitiva, l’atteggiamento sacro generale che rende ogni cosa lo step di chissà quale percorso.
Non torno alle enciclopedie per il solo motivo che adesso ho internet.
Scrivo queste cose perché sono malata ed annoiata?
No. Questa è la parte più sana della sottoscritta.

A prima vista parrebbe un tornare indietro.
Ma io preferisco pensarla come una ripresa. Un ritorno su un’ottava più alta.
Come un altro giro sulla spirale. Uno dei più onesti, direi.
Sono sempre stata tentata di pensare di aver perso un sacco di tempo.
In realtà ritrovarsi oggi può essere solo il segno di un lavoro svolto – un enorme lavoro svolto.
Una gavetta indispensabile per radere al suolo tutto ciò che non è struttura autentica.

Scrivo moltissimo in un diario privato. Come anni fa.
Ritrovo la mia ironia, la mia scioccante e sincera profondità, le plateali ammissioni circa paure, carenze e piccole follie.
Chissà che non torni a fare un po di teatro anche qui sopra.
Per il momento pare di no.
Ciao gatti

Pensiero vago

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Tutte le paranoie scritte in questi anni, tutti i pensieri che cuociono le meningi,
tutti i dubbi quotidiani ed esistenziali, hanno una sola origine, che insolitamente sintetizzo in una sola parola: interpretazione.

L’interpretazione è naturale e funzionale.
Il vaglio dell’esperienza passata che ha creato la struttura, plasma ciò che viene percepito
e ogni uomo vede il mondo come gli conviene e, in definitiva, per ciò che egli stesso è.
E fin qui, non ci piove. Non ci ha mai piovuto. Nemmeno quando ancora non ne sapevamo nulla.

Il punto è che ad un certo momento della vita, l’interpretazione, utile fondamentalmente a conoscersi e a diventare progressivamente consapevoli di sé, va abbandonata.
E la realtà, vista per quel che è.
La realtà è tutto ciò che è, esattamente per quel che è.

C’è un livello interpretativo della realtà talmente condiviso da divenire verità stabile per tutti. O almeno per tutti coloro che appartengono ad una stessa frangia, levatura, tipologia o specie.
In ogni caso, a prescindere dalle caste, la realtà, profondamente soggettiva, diventa oggettiva nel momento in cui la coscienza del singolo sconfina per intersecarsi con una o più altre coscienze. A quel punto il vissuto collettivo coagula in un ente terzo che precipita nella materia e crea i fatti.

La realtà sono i fatti.

E se le parole sono un annuncio, i fatti sono il vero treno che passa.
Dobbiamo sempre stare pronti a salire, a cambiare treno o a non partire proprio.

Ciao gattacci.