Un giovedì

petalligator

Come sono lontani quei giorni in cui pretendevo di stanare e combattere i mostri.

Ho un dinosauro di plastica viola sulla scrivania. Bruttissimo, poverino.
Ecco. E’ quel “poverino” che oggi fa la differenza.
Non diventerà forse mai bello. Ma saprò amarlo.

Ho buttato il guinzaglio a strozzo: se resisto e pretendo direzioni poco naturali, divento maldestra e strattono forte la corda.
Stringo il collo al coccodrillo. Ma a star male sono io.

Ora incontro in pace l’alligatore delle mie paludi.
Tento di parlarci. Lo concepisco. Me ne sto.
Ne prendo atto. Per me, ora, può pure restare.

Il suo collare è d’oro e ha pietre preziose: il rubino dell’energia, lo zaffiro della resa, lo smeraldo del naturale stare con quello che c’è, il diamante di una luce nuova.

Il suo collare è la mia corona.
E io amo tanto il mio coccodrillo.

Sono uscita un attimo e sono andata in riva al mare.
Non mi capacito di come la gente che abita qui (a partire da me!) non si regali ogni giorno 5 minuti per se in riva al Big Blue: la spiaggia era deserta.
A parte un uomo con le sue due canne da pesca piantate sulla riva. Due lunghi steli flessibili, un secchio, lui con le mani in tasca. E il sole, gia sceso dietro il promontorio, che proiettava striature rosa e arancio nell’ovest del mio orizzonte. Tenuamente, con una certa discrezione.

Ogni tanto, prima dell’imbrunire, lo faccio.
Scendo in spiaggia, vado vicina all’acqua di fronte ad un quadro dal fascino indiscusso ed indiscutibile, con l’idea di poter fare pensieri altissimi, eroici ed indimenticabili.
E invece mi ritrovo quasi sempre a restare immobile e vuota.
Incredibilmente vuota.
Di solito tocco l’acqua con una mano, e porto il salino sulle labbra, come un gesto senza senso eppure fondamentale.
Una specie di bacio, forse.
Un rito totalmente istintivo e inconscio.

Poi accade che diventa buio, quasi improvvisamente.
Il mare diventa più forte, più grande, più potente ma io non ne ho paura. Mi giro e torno in strada, rincuorata da un fortissimo senso di protezione e complicità, pattuito ogni volta con un ultimo sguardo al blu.

Son fortune.

Il tarlo (e gli esercizi di ripristino)

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Se aspetto che mi venga in mente qualcosa di intelligente per iniziare a pubblicare con regolarità e costanza, rischiamo le calende.
E allora niente. Ho un tarlo nel cervello.
Una quota cerebrale congelata in forme obsolete, sequestrata da protocolli ormai da soffitta, anzi, da discarica.
E il tarlo, in questa, indefessamente pasteggia.
Devo dedurre che continuerà a farlo finché la mia testa non sarà adeguatamente bonificata con volontà consapevole e costanza devozionale. (Il Dio di riferimento, in questo caso, sarei io).

I cunicoli scavati dal tarlo saranno, infine, mille milioni.
E tutto crollerà.
Le congetture franeranno, le linee guida si frantumeranno ed eventuali residui sensi di colpa, saranno già sgonfi da un pezzo. Ma questo si chiama Alzheimer.
Il Tarlo va stordito, sconfitto, estirpato.

La malattia si chiama Attaccamento Al Passato.
E oltre ad essere piuttosto sgradevole ha un titolo francamente troppo lungo.
Ma tra le pieghe del suo esistere, pessimo e dannoso, un suo senso ce l’ha.
Un utilissimo senso: mostrare gli errori per non rifarli più.
Se poi, come succede alla sottoscritta, si esercita la cretineria in loop, allora giriamo il tutto alla psichiatria. Ma l’attaccamento alla vita può fare grandi cose. Soprattutto se non hai i soldi per una seria terapia.

Un modo che mi piace è questo: ci si dispone ad analizzare eventi passati così come si rilegge un libro importante per la seconda (o terza) volta, dopo anni.
Rileggere i propri decenni con una coscienza nuova e con un’opportuna distanza dagli eventi è provvidenziale.
Fastidioso ma provvidenziale.
Certe evidenze prima mai riconosciute, stordiscono. Traumatizzano la Te che sei diventata, nel frattempo, sputando sangue, arrampicandoti sui ginepri e facendo quintali di fatiche inutili.
Ma quando l’oscillazione emotiva e l’uragano mentale si calmano, beh, digerisci la lezione e guardi di nuovo l’orizzonte.
E hai fatto un passo da gigante. Un altro.

ESERCIZIO: stampare alcuni punti salienti dei propri diari in un A4 verticale con testo disposto solo su una di due colonne.
Lasciar riposare i fogli per qualche settimana.
Rileggere l’opus gigantesca (il lavoro può durare una vita, se scrivete da una vita e siete delle drama-queens) immaginando che lo scritto sia di qualcuno a cui tenete parecchio tipo vostra madre, qualche vostro avo, un’amata sorella, ecc.
Rileggere quindi, e, nella colonna vuota, replicare per iscritto ad ogni stronzata galattica che state leggendo sulla colonna stampata, attingendo alla presunta maggior saggezza della vostra mentalità attuale.
Può accadere che vi si strabuzzino gli occhi, vi si allunghino i canini e orripiliate allegramente in ogni centimetro quadrato della vostra pelle.

Pellaccia che, nonostante tutto, avete portato a casa.
Vi assicuro che, in alcuni casi, per stare meglio bastano dieci righe tra mille.
Se avete culo di trovare quelle che si incastrano alla perfezione con la paranoia del giorno.
E ciao.

Segni

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Sul profilo personale di FB (che è ben peggio di una pagina goliardica) sono solita pubblicare i miei famigerati “ritrovamenti”, ovvero immagini di oggetti (o animali o qualunque cosa insomma) trovati in giro, per caso, ai quali affibbio un significato in linea con la convinzione che “tutto ci parla”.
Ogni cosa notata è un segno, una via, un’indicazione, un cartello sottovoce.
Molti pensano che io sia “originale” (per non dire pazza), altri mi ridacchiano addosso con sufficienza (e rigorosamente in silenzio stampa) ed altri ancora collaborano alle definizione oracolare con gran gusto e vivace partecipazione.
Un divertimento collettivo in cui ognuno finisce per manifestare il riflesso delle proprie convinzioni. Io prima di tutti.
A me piace troppo questa cosa.

Ma mica è un gioco.

Se vedo un ragno, e lo vedo di sicuro (vedi articoli passati intitolati Fobie), mica lo fotografo per forza ogni volta.
Ma se abita da settimane lo specchietto dell’auto oppure staziona immobile come un gatto di marmo al di sotto della MIA cassetta della posta, beh, per me è pacifico che ha da dirmi qualcosa.

Stasera questa bestia, che probabilmente alla prima luce del giorno entrerà a fare la bella statuina sulla mia bolletta dell’Enel, mi ha fatto venire in mente come prima cosa il proverbio popolare secondo cui “ragno, guadagno”.
Una stronzata galattica, dico io.
Sapete quanti ne ho trovati come quello? Eppure.
Che funzioni proporzionalmente alle dimensioni?
Perché, allora, i miei sogni di gloria potrebbero far apparire una tarantola gigante direttamente sul soffitto della mia camera.
Anche no.

Dopo più di due mesi di silenzio potevo anche scrivere qualcosa di più interessante.
Anche no.

Uccellini

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È il titolo di una raccolta di racconti erotici della mia amata Anaïs Nin.
Ma è anche la mia nuova passione ‘animale’.

Comunque mi esprima, dire questo senza cadere nel gergo popolare in cui questi animaletti fanno la parte del pisello (scelgo la versione vegetale, per farmi capire) è praticamente impossibile.
Immaginate dire “ultimamente mi sto appassionando agli uccelli?”.
Se mi va bene, potrebbero rispondermi “e fino ad ora, cosa facevi?”.
Non è il caso di continuare.

Trovo che siano delle creature meravigliose e non so perché non me ne sono accorta prima.
La sensibilizzazione alla bellezza di questi piccoli cuori che salpano il cielo, ho pensato recentemente, è iniziata con un sogno.
Un sogno strano, in cui c’erano un sacco di uccellini con le ali doppie.
Lasciamo stare cosa possano significare. Non saprei. Anzi se qualcuno ha qualche idea, libero di aiutarmi a capire.

Qui dove vivo ora c’è ne sono moltissimi.
Mi affascina, probabilmente, la loro abilità di vivere nell’unico elemento di natura con cui non ho confidenza.
La più impalpabile delle materie, che mi appare come un immenso contenitore di tutto ciò che ancora non conosco.
La controparte fisica di quel regno in cui sono presenti tutte le cose che accadono e che a me non sono ancora accadute o di cui non mi accorgo.

Mi affascina la loro piccola dimensione, la loro apparente delicatezza. Una forma piumata, affusolata e palpitante, che si esprime in velocissimi movimenti, come se il tempo per loro si svolgesse ad una velocità diversa. Ed è così.
Come se vivessero in un ologramma del mondo miniaturizzato, in un’onda vibratoria ad alta frequenza, tra le onde vibratorie di tutto ciò che c’è.

Mi affascina il loro canto senza il quale il mondo fuori dalla finestra, sembrerebbe morto.

Mi rassicura vederli volare in lontananza, stagliati nell’azzurro o nel bianco lattiginoso delle nuvole.
Mi incantano gli stormi, forme collettive che rivelano un’intelligenza superiore e una sincronia armonica che segue leggi invisibili, ma per questo non reali, di Natura.
Manifestazione fisica di qualcosa di decisamente superiore.

E allora cosa siamo noi!

Oggi sono romantica da diabete.

Blackbird

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Certo che se è per scrivere queste cose, potrei anche farne a meno.
Comunque, a dispetto dell’apparenza, quello che che sto per raccontare è un bel segno.
Esco trafelata stamattina e davanti alla porta di ingresso del mini condominio dove abito, vedo una cosa nera per terra. Uno straccio. Forse un calzino.
Ma no, non ci sono panni stesi lì sopra. No, è più grosso di un calzino.
Mi avvicino, un uccello. Un uccello nero.
Immobile.
Lo tocco con la punta dello stivale, che nel caso di movimenti repentini ed inaspettati mi fa più paura la vita della morte. Ma no.
È morto.
Non si può dire che possa facilmente sembrare un bel segno, no?
Un uccello nero. Un uccello morto.
Uccello nero portatore di sventura.
Uccello morto portatore di sventura (vicino a casa poi, il pronostico è agghiacciante).
Ma se la matematica volesse venirmi in aiuto, nella semplificazione dei rapporti simbolici, ed energetici, e archetipici di questo mai abbastanza sondato Universo, meno più meno fa più.
(E anche oggi sono riuscita ad rifilarvi un mini giochetto di parole).
La strega, il messaggero dell’ombra, l’inquietante presenza oscura sul ramo all’imbrunire, il pericolo incombente, la sventura, il monito sinistro, l’uccello nero insomma. Morto.
Finito, basta, kaputt.
Si, con un certo protagonismo, direi.
Ha voluto farsi vedere.
Dovevo essere io la prima a vederlo, davanti all’uscio di casa?
Forse non sono stata la prima, ma il messaggio è per chi lo legge.
Di sicuro nessuno prima di me lo ha degnato di sufficiente attenzione.
Su quelle chiare piastrelle era ancora più desolante che mai.
L’ho messo in mezzo al campo.
È vero che mi capita di tutto pur di non essere puntuale in ufficio.
Ma la sepoltura dell’uccello nero alle 07.50 mi pareva troppo.
Povero merlo.

Daily News

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Prima il trasloco. Poi un po’ di vacanze. Poi le feste.
Oggi, di fatto inizia veramente la mia nuova vita in landa straniera.
Non che il trasloco sia finito.
Ma il grosso è fatto.
Mesi di dubbi, paure, ansie. Si sa come sono fatta. (Male.)
E invece eccomi qui.
È tutto esattamente come avevo immaginato.
Per un certo aspetto, meglio.
Meglio perché sono meglio io, nella mia personale scala di valori, obviously.
Perché sono io che ho in mano il telaio, lo scettro, il pulsante rosso.
Questo non significa che non scriverò più lagne.
Non illudetevi.
La lagna é nata con me, come il mio fegato e i miei tendini.

Mi sono tolta di dosso l’ansia del traguardo definitivo.
Il traguardo definitivo non esiste.
Anzi, si, ce n’è uno, uno solo, ed è meglio che sia lontano.
Vorrei specializzarmi bene nelle tappe intermedie, chiaro?

Quanto starò in questa casa? Chissà.
NON HA IMPORTANZA.

Siamo in quattro: io, le due pellicce e una coccinella.
Non vorrei sbagliarmi ma gira per casa da più di un mese.
Non capisco come i gatti non l’abbiano ancora catturata.
Anzi l’ho capito quando ho visto la gatta sputacchiare dopo averla pinzata con la bocca. Evidentemente non è di loro gradimento.
Stanno tutti sulla poltrona, la sera, quando mi leggo quelle due o tre pagine d’ordinanza.
Tutto normale, tranquillo, ancora un po’ caotico ma in sereno divenire.

La coccinella sta svolazzando intorno alla lampada.
Rossino, stufo del suo solito sfingeo, indifferente, britannico aplomb, le fa la caccia.
Ma so che fanno finta. Passano il tempo.
Io ho scritto sedici righe di memorie, mi preparo per la notte incurante del fatto che la mia automobile è animata. Per non dire posseduta.
Prima sono scesa a portare via la spazzatura e ho ricordato di avere un copricerchio nel baule (qui ci sono troppe rotonde, con bordi troppo alti). Ho tentato di rimetterlo al suo posto e non so se la chiave dell’auto abbia fatto le contorsioni nella mia tasca attivando comandi di cui non conosco l’esistenza, o se nella ruota si celano sconvenienti centraline elettriche… Fatto sta che mentre davo colpetti poco eleganti alla ruota, la mia automobile ha acceso le 4 frecce un paio di volte come dire “Sta attenta. Vedi che ti faccio adesso” e ha tirato giù a metà i tre finestrini (il quarto non funziona).
A questo punto di colpo immagino mia madre con la sua tipica risata che dice: “Uh madonna! Le streghe!”.
“Le streghe” per lei erano un sacco di cose: i miei libri sull’esoterismo, l’astrologia, le coincidenze, i suoi sogni premonitori.

Perché diavolo i finestrini a metà?
Oggi come oggi, non mi faccio più domande e non mi stupisco quasi più di niente. Ma se c’è qualche elettrauto all’ascolto che ne sa, è pregato di spiegarmi se dopo di me Padre Amorth deve vedere anche una polo bianca o se sono cose che capitano anche alle persone normali.
Buonanotte gatti.

PS: il template è ancora un altro. Lo so. Ma anche il blog è finito nel sacco della Transitorietà delle Condizioni. 🙂

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La vespa

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Mi sono seduta sulla panchina che ho fuori sulla terrazza, come di consueto, in un attimo di pausa, mentre il riso cuoce, mentre i gatti annusano per l’ennesima volta ogni angolo.
C’è stato l’imbianchino. Nuovi odori. Nuove disposizioni.
Spostamenti, particelle estranee. Un’aria diversa.

Mi gironzola intorno una vespa. Ce ne sono sempre state quassù.
Non me ne curo. Non ho paura. Basta lasciarle fare. Curiosano un po’ e poi se ne vanno.
Invece questa si ferma a mezz’aria per un po’, immobile tra le sue ali vibranti e mi guarda. Ad altezza volto, mi fissa. Come sospesa in un attimo che intercorre soltanto tra me e lei.
Lo fa per un tempo cha a me pare lunghissimo.
L’imbianchino ieri, tutto fiero, mi ha detto di aver distrutto ed eliminato un favo di vespe.
Lo sguardo che posso intuire di questo piccolo insetto è uno sguardo di rimprovero. Come se si fosse fermata a chiedermi: “perchè?”.
In nome della paura si uccidono molte cose.
Inutilmente.

Cosa si mangia stasera?

Certe terre promesse sono come la carota dell’asino.
Tu vai avanti e non la prendi mai.

Nel menù oggi, oltre alla carota dell’asino, abbiamo anche
la sindrome del binario, l’avvistamento della chimera,
il miraggio perfetto, l’epopea del paradosso.
E una serie infinita di rifrazioni, come di due specchi
messi l’uno di fronte all’altro, tali da portare alla follia.
Per non rischiare, vado a dormire.
Buonanotte supergatti.