Il tarlo (e gli esercizi di ripristino)

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Se aspetto che mi venga in mente qualcosa di intelligente per iniziare a pubblicare con regolarità e costanza, rischiamo le calende.
E allora niente. Ho un tarlo nel cervello.
Una quota cerebrale congelata in forme obsolete, sequestrata da protocolli ormai da soffitta, anzi, da discarica.
E il tarlo, in questa, indefessamente pasteggia.
Devo dedurre che continuerà a farlo finché la mia testa non sarà adeguatamente bonificata con volontà consapevole e costanza devozionale. (Il Dio di riferimento, in questo caso, sarei io).

I cunicoli scavati dal tarlo saranno, infine, mille milioni.
E tutto crollerà.
Le congetture franeranno, le linee guida si frantumeranno ed eventuali residui sensi di colpa, saranno già sgonfi da un pezzo. Ma questo si chiama Alzheimer.
Il Tarlo va stordito, sconfitto, estirpato.

La malattia si chiama Attaccamento Al Passato.
E oltre ad essere piuttosto sgradevole ha un titolo francamente troppo lungo.
Ma tra le pieghe del suo esistere, pessimo e dannoso, un suo senso ce l’ha.
Un utilissimo senso: mostrare gli errori per non rifarli più.
Se poi, come succede alla sottoscritta, si esercita la cretineria in loop, allora giriamo il tutto alla psichiatria. Ma l’attaccamento alla vita può fare grandi cose. Soprattutto se non hai i soldi per una seria terapia.

Un modo che mi piace è questo: ci si dispone ad analizzare eventi passati così come si rilegge un libro importante per la seconda (o terza) volta, dopo anni.
Rileggere i propri decenni con una coscienza nuova e con un’opportuna distanza dagli eventi è provvidenziale.
Fastidioso ma provvidenziale.
Certe evidenze prima mai riconosciute, stordiscono. Traumatizzano la Te che sei diventata, nel frattempo, sputando sangue, arrampicandoti sui ginepri e facendo quintali di fatiche inutili.
Ma quando l’oscillazione emotiva e l’uragano mentale si calmano, beh, digerisci la lezione e guardi di nuovo l’orizzonte.
E hai fatto un passo da gigante. Un altro.

ESERCIZIO: stampare alcuni punti salienti dei propri diari in un A4 verticale con testo disposto solo su una di due colonne.
Lasciar riposare i fogli per qualche settimana.
Rileggere l’opus gigantesca (il lavoro può durare una vita, se scrivete da una vita e siete delle drama-queens) immaginando che lo scritto sia di qualcuno a cui tenete parecchio tipo vostra madre, qualche vostro avo, un’amata sorella, ecc.
Rileggere quindi, e, nella colonna vuota, replicare per iscritto ad ogni stronzata galattica che state leggendo sulla colonna stampata, attingendo alla presunta maggior saggezza della vostra mentalità attuale.
Può accadere che vi si strabuzzino gli occhi, vi si allunghino i canini e orripiliate allegramente in ogni centimetro quadrato della vostra pelle.

Pellaccia che, nonostante tutto, avete portato a casa.
Vi assicuro che, in alcuni casi, per stare meglio bastano dieci righe tra mille.
Se avete culo di trovare quelle che si incastrano alla perfezione con la paranoia del giorno.
E ciao.

Insonnia

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Avendo, di consueto, necessità vitale di scrivere, capite bene che questo silenzio è patologico.
In realtà è solo una forte inibizione le cui cause non possono essere trattate in questa sede.
Siccome però non è il caso di esplodere, mi faccio tutta una serie di discorsi mentali sostitutivi. Immagino frasi come se dovessi scriverle.
Poi però non le scrivo. Questa no. Questa non va bene. Questo non dovrei scriverlo. Questo si ma così è monco, e via con questo andazzo.
Blocco a metà i concetti, capisco che è cosa stupida e deleteria e tento allora di disciplinarmi al silenzio.
Inutilmente, bisogna dirlo.

Le poche frasi che compongo, di solito prologhi di epici trattati in odore di psichiatria, ad un certo punto incespicano, si contraggono, perdono la forma ed infine, pur di precipitare nella materia, si coagulano in acronimi: la censura, la schiavitù travestite da gergo giovanile.
Come se qualcuno potesse sentire anche quello che penso. Sono veramente alla frutta.
Nella mia testa si scontrano e rimbalzano decine di CCV, MVFC, PM, PP, WTF, SUM, TLC, SAV, NCPC, ecc.
Me li ricordo tutti perché mentre vago per casa rapita dal non senso, li scrivo su dei foglietti.
Peccato che non riesca a ricordarne tutti i significati.
Comunque BN. Che tanto sonno non ne ho.

Spiritika.

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(Post inadatto agli intolleranti a piagnistei, rituali e preghiere).
Scatole tra i piedi, trafitta dai ricordi, tormentata da vincoli invisibili, obsoleti ma resistenti. Legàmi.
Porca miseria voglio parlarti ora. Subito.
Ho bisogno di un aiuto che solo tu puoi intendere. Capiresti anche perché uno, liberandosi di fardelli, molto logicamente pianga. Tu hai le parole giuste, ne sono certa.
Non mollarmi qui da sola cazzo.
Io mi arrangerei con calma, ma devo fare presto: mi devi aiutare.
Solo chi ha costruito con me tutto questo può comprendere ed ha la chiave
per liberarmi.
Dimmi che io sono io e non sono te e nemmeno gli altri che sai.
Dimmi che io sono io e non devo diventare qualcun altro. Soprattutto.
Dimmi che quello che mi piace fare lo posso fare.
Dimmi che è naturale perdere tutto questo (che non sono certo ‘cose’)
e che è corretto affrontare tale perdita senza il tuo sostegno.
Tu unica possibilità, tramite ancora vivo nella mia mente tra il dove sono oggi
e dal dove provengo.
Tu carceriere amorevole, a tua volta incatenata e per questo portatrice
di contagiose zavorre.
Dammi la misura per eliminare ciò che non sono io e difendere ciò che mi rappresenta.
Vienimi in sogno, mandami un segno, fai qualcosa.
(Senza spaventarmi però).

Per sempre

Mia illusione.

Mio vuoto
mia ferita
mio fiore
mia speranza
mio demone
mia disfatta
mio fuoco
mio grido
mia Via.
Mio baratro
mia mente
mio dolore
mio specchio
mio sorriso
mia rabbia
mia gioia
mia musica
mio silenzio.
Mio sole
mio inverno
mio aguzzino
mio miraggio
mio cielo
mio gelo
mia tempesta.
Mio inganno
mia rinuncia.

Mia carne
mio destino
mia solitudine.

Mio amore.

L’anima con le borchie

Quand’é che il mostro sei tu?
Sempre. Il mostro sei SEMPRE tu.
Dopo anni di autoanalisi de’ noantri, dopo insegnamenti plurimi sull’equilibrio psicofisico e sulla (da te spesso diffidata) esistenza di una dimensione spirituale,
ti siedi nei seggiolini color faggio della sala d’attesa delle poste, con in tasca il numero E183 e scrivi la genialata che hai capito.
Quella che hai sentito nei visceri quando hai incrociato il tuo sguardo nello specchietto retrovisore, circa 15 minuti fa, alla rotonda dell’outlet e ti sei vista uno schifo. Brutta, sporca, peccaminosa. Lucida e brillante fuori, come una mela col verme dentro. Corrotta, difettosa, deviata, maldestramente ingannevole e stanca. Stanca morta di voler essere a tutti i costi non si sa cosa.
(Che non sia, naturalmente, quella che sei.)
In pratica hai scoperto che nessun al mondo avrebbe nulla da ridire su come ti vesti, su quello che mangi, su quanto dormi e su quello che ti piacerebbe fare tranne che quell’improbabile tipa che ti fissa attonita, la mattina, allo specchio.
Che sei tu che non ti sopporti.
Che sei tu che ti critichi.
Che sei tu che ti giudichi.
Che sei tu che non ti vai bene.
Che sei tu che non ti vuoi bene.

Che sei tu il mostro che, mentre ignara intrecci contenuti di superficie sentendoti intelligente e phyga (lo scrivo così perché temo i motori di ricerca), pianta i paletti nelle tue fondamenta, costruisce trappole nuove su tagliole antiche, tende lenze ed erige muri.
Non statemi a dire che lo sapete già.
Il mondo pullula di manuali di auto-aiuto e di condivisioni facebookkiane in cui si proclama che i limiti sono nella nostra mente.
Non tutti lo sanno davvero, io per prima fino a ieri.
Non si tratta di capirlo o di scriverlo.
Si tratta di sentirlo.
Non sono teorie.
È guardarti e, molto sinceramente, in quel momento non piacerti.
Sono quegli attimi in cui affiora il tuo demone e ti mostra quanto puoi essere brutta, cattiva, sbagliata.
È un’improvvisa buca su una strada liscia.
È vita, comunque. Vita tempestata da mille borchiette di anti-vita.
Siamo al numero E177 e dopo questa visione delle borchiette, direi che è meglio se la mollo li.
Tanto, sono comunque di buon umore.
Buona serata mostriciattoli.

Timori notturni

Questo buio stanotte è poco denso.
Non è che mi esce fuori qualche fantasmino?
Anche no, per favore.

È la Legge, baby..

“All’occhio – destato alla visione sovrasensibile – del Mago, il mondo spirituale
si rivela come quello di un insieme di potenze allo stato libero, potenze che non hanno attributi, che sono soltanto se stesse in pura natura di folgorazioni e lampeggiamenti. 
Termini come “fulminee”, “voraginose”, “spaventevolmente pure”, non ne possono, essi stessi, che dare una lontana suggestione.
Ognuna di tali potenze è in quanto mantiene la propria individualità, resistendo alle altre che andrebbero ad attrarla e organizzarla sotto di loro. 
(………)
…. ogni legge ed ogni ordine nulla è più che un prodotto di organizzazione, il segno di un potere più vasto il quale è riuscito a travolgere, riprendere e unificare altri sotto di sé, riducendo così l’originario caos delle forze molteplici e lottanti.
La lotta, tuttavia, qui ha un senso tutto speciale, libero da tutto ciò che è odio e violenza: è come un mettersi faccia a a faccia di “presenze”, come un incontrarsi e misurarsi di gradi di “essere”, di “quanta” di intensità. 
Nessuna potenza vuole, in senso stretto, travolgere e dominare le altre, ma ciò procede in via naturale, in virtù del più alto grado di essere che le è proprio, il quale è vortice in cui sono irresistibilmente attratte, riprese e subordinate le potenze minori che si mettano in rapporto con essa.
In questo mondo materiato di tensione non vi è divario: non subordinare è essere subordinato. Mantenere la proprio autonomia è vincere – e ciò qui vuol dire: resistere.
Un principio fondamentale in magia afferma appunto che ciò che investe un ente e non riesce a travolgerlo, da esso è fatalmente travolto e ripreso nella sua legge.
(…………..)
Un Io che in nessun punto viene meno alla tensione, che in nessun punto è indietro rispetto alla marea vertiginosa delle energie cosmiche che, destate e scatenate dal suo procedere, tenderebbero a sbalzarlo via (………) è un essere regale e solare, più forte della natura, dominatore degli dèi, di là dello stato di nascita e morte.”

(J. Evola, 1927)

Voci dalla cantina

Già l’ho scritto di là.
Sono intrappolata in un inerzia vischiosa, pesante.
Sepolta (mezza) viva nei budelli oscuri della mente che ha smesso di funzionare proprio quando mi trovavo nel seminterrato. E lì sono rimasta.
È una giornata stupenda, oggi.
Non riesco a sovrapporle e adattare ad essa il mio stato oscuro.
Per questo mi sento dissociata.
Posso fare tutto e non riesco a fare niente.
Avevo qualche idea ma vorrei solo dormire.
Anche perché delle idee che avevo l’unica sensata era di quella di andare un po’ nella Gea a prendere il sole.
Giro per casa come un fantasma ma non ci faccio bella figura.
Soprattutto nei confronti degli spiriti veri.
Che poi, con tutto il rispetto, in questo momento di grande disillusione,
non so nemmeno se esistono davvero.
Ma veniva bene a scriverlo.
Rompo i coglioni ai gatti che mi sopportano ma che, appena cessata l’ondata di coccole forzate, si girano dall’altra parte senza colpo ferire ed io resto qui con il mio vuoto attaccato alla schiena. Come una vera carogna.
So che basterebbe solo iniziare. Iniziare a fare qualcosa.
Ma non ci riesco. È più forte questa insensatezza, che mi avvolge come un bozzolo molle ed appiccicoso.
Che poi sarebbe anche una sfaccettatura del processo riparatore: quando ne esco sono sempre parecchio trasformata.
Va be’. Vado a fare un reset parziale dalle due Anime.
Se ci sono. Se non ci sono avrò fatto comunque qualcosa di utile pulendo un po il marciapiede, no?

Una notte

Il silenzio e l’oscurità.
E’ la notte che mi è consona ora.
Nessun riferimento. Un andare piano, lento, a tentoni.
Brancolare nella selva, conosciuta ma ostile.
Ogni ramo una frustata. Ogni inciampo, una trappola di spine.
Ogni barlume, effimero ed ingannevole.
Un volto, sempre lo stesso, in sovrimpressione, una luce flebile.
Un’icona d’amore che si trasforma ad ogni passo.
Man mano che mi avvicino diviene un mostro.
Che mi graffia, mi morde e mi lacera ancora.

Il silenzio, mai così violento.
L’oscurità mai così spettrale.
Il freddo, una specie di cattivo odore, un movimento interno
delicato e malmostoso.
Una pressione al contrario.
Il vuoto.

Cerco nei suoni interni una musica che mi rassicuri.
Ma non trovo nulla che non sia il rumore di un pietoso
e fatale equivoco, di una cieca ostinazione.
Del tintinnio metallico della costruzione di un pretesto.
Cerco nell’immobilità il senso di esistere.
Ma non colgo il punto per la pioggia intensa di parole
il cui ricordo mi flagella, come una grandine estiva.

E’ la notte che assomiglia ai miei giorni di oggi.
Una notte in cui non posso riposare.
Una notte in cui farmi divorare.

(forse 2001)

Psycospeleologia spinta

Immagine
Gustave Doré, La Divina Commedia, L’Inferno, Canto I, Versi 1 – 2, La Selva
(grazie a Marco Capurro)
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Continuano le esplorazioni…