Tutti e nessuno. Tutto e niente.

Si può avere nostalgia di qualcosa che non si è mai vissuto? Di qualcosa che non si ha mai avuto?

Non si può confondere con il desiderio. È vera nostalgia, un sentimento con cognizione di causa. Un sentire dove si hanno certezze, un tempo interiore dove si sprigionano sensazioni così reali da sembrare memorie.

E così cammino assorta in un lunghissimo ed altissimo corridoio abbagliata da un sole mattutino che prorompe dalle enormi vetrate.

E così sorrido tra il baluginare delle fiamme dei candelabri muovendomi nel sottile fruscio di sete pregiate, inspirando fumi e profumi e torride sensualità.

Così scruto il cielo mentre la prua fende le acque blu, scivolando quasi in silenzio in quell’immensità gorgogliante che di notte si fa nera ed occulta come fosse l’inconscio del mondo.

Così, vesto i panni di donne e uomini che non sono io ma che sono inspiegabilmente anche io. O sento come sente un arbusto o un insetto che vola nervoso. O ricordo un’aria pulita di mille anni fa. O continuo a sprofondare, determinata, immobile e pesantissima come un masso che resta se stesso su una terra che cambia nel tempo.

Così ricordo tempi e ambienti passati e altri non ancora esistiti.

C’è qualcosa che da remoto mi tira indietro o mi tende verso qualche direzione, così fortemente da sapere, incarnare, ricordare vite non mie che però sono mie.

C’è una trama in tutto questo la cui natura ancora non colgo. La direzione del tempo non è più plausibile ne funzionale al mio ragionamento.

Un giovedì

petalligator

Come sono lontani quei giorni in cui pretendevo di stanare e combattere i mostri.

Ho un dinosauro di plastica viola sulla scrivania. Bruttissimo, poverino.
Ecco. E’ quel “poverino” che oggi fa la differenza.
Non diventerà forse mai bello. Ma saprò amarlo.

Ho buttato il guinzaglio a strozzo: se resisto e pretendo direzioni poco naturali, divento maldestra e strattono forte la corda.
Stringo il collo al coccodrillo. Ma a star male sono io.

Ora incontro in pace l’alligatore delle mie paludi.
Tento di parlarci. Lo concepisco. Me ne sto.
Ne prendo atto. Per me, ora, può pure restare.

Il suo collare è d’oro e ha pietre preziose: il rubino dell’energia, lo zaffiro della resa, lo smeraldo del naturale stare con quello che c’è, il diamante di una luce nuova.

Il suo collare è la mia corona.
E io amo tanto il mio coccodrillo.

Sono uscita un attimo e sono andata in riva al mare.
Non mi capacito di come la gente che abita qui (a partire da me!) non si regali ogni giorno 5 minuti per se in riva al Big Blue: la spiaggia era deserta.
A parte un uomo con le sue due canne da pesca piantate sulla riva. Due lunghi steli flessibili, un secchio, lui con le mani in tasca. E il sole, gia sceso dietro il promontorio, che proiettava striature rosa e arancio nell’ovest del mio orizzonte. Tenuamente, con una certa discrezione.

Ogni tanto, prima dell’imbrunire, lo faccio.
Scendo in spiaggia, vado vicina all’acqua di fronte ad un quadro dal fascino indiscusso ed indiscutibile, con l’idea di poter fare pensieri altissimi, eroici ed indimenticabili.
E invece mi ritrovo quasi sempre a restare immobile e vuota.
Incredibilmente vuota.
Di solito tocco l’acqua con una mano, e porto il salino sulle labbra, come un gesto senza senso eppure fondamentale.
Una specie di bacio, forse.
Un rito totalmente istintivo e inconscio.

Poi accade che diventa buio, quasi improvvisamente.
Il mare diventa più forte, più grande, più potente ma io non ne ho paura. Mi giro e torno in strada, rincuorata da un fortissimo senso di protezione e complicità, pattuito ogni volta con un ultimo sguardo al blu.

Son fortune.

Mi perplimo di venerdì pomeriggio

Non mi sento a casa da nessuna parte. E ne soffro.
Contemporaneamente emerge la mia vena nomade.

Ho paura di non essere mai all’altezza delle cose.
E mi ritrovo spesso in situazioni nuove.

Mi pare di morire senza dei punti fermi.
E mi getto nel vuoto come sospinta da qualcosa che non sono io ma che mi manovra da dentro.

Di tutti gli “io” che ospito, fosse quella cosa dentro – che spinge – il più saggio?

Procedendo

mistero-migrazione-degli-uccelli-scienza
Ci vorrebbe una foto.
Sono uscita a fumare una sigaretta sul ponticello.
Questa è l’ora che da origine all’imbrunire.
C’è un cielo spettacolare.
Nuvole striate color grigioazzurro, e rosa e mille sfumature che non so descrivere.
Sullo sfondo il Baldo che emerge da un nulla nebuloso e sottile.
Il baldo con i riflessi rosa. Un rosa tenue.
In alto gruppi di uccelli che si spostano verso il lago.
Tra loro un pennuto lacustre in direzione quasi contraria, grande, solitario, dal collo lungo.

La bellezza da ancora più senso alla vita.
Penso a papà che guardava il cielo esattamente come lo guardo io.

Penso che ormai mi è davvero impossibile restare in superficie, evitare i grandi perché e uscire da quella visuale globale, profonda, totale delle stagioni, della natura, di ciò che esiste e vibra, dei cicli dell’esistenza, della meravigliosa fortuna che abbiamo nel vedere le cose che ci sono così come le vediamo noi.

Come al solito uno “stare” in questo modo mi spaventa.
Ma non ha più senso evitare questo modo di essere per la stupida paura di morire da un momento all’altro.
Come se nella gioia, e senza tormenti, non avessi più motivo di vedere dei cieli simili.
E dire che non ho ancora visto niente.
Paura di morire o paura di vivere?
(7 gennaio 2015)

È passato più di un anno da questo scritto.
L’approccio al mondo fenomenico è lo stesso. Più intenso ancora, se possibile.
Ma quella paura di fondo sta svanendo lentamente.
Ogni giorno sento di meritare di più ogni cosa che mi viene incontro.
Ci trovo un senso, un legame profondo a ciò che sono e non so di essere.
La striscia di inconscio più vicina alla superficie emerge piano tra le maglie allargate dalla resa.
E dalla calma.
Arrendersi assertivamente, avesse un senso dire una cosa simile.
Dire ‘Si, ok. Va bene.’
Che relax!
Ho vissuto troppo tempo nella testa resistendo a mille cose: è ora di godersi l’incarnazione al 100%.
La pre-occupazione non ha senso.
Ciao gatti

Giamaica

IMG_9401
Ho fatto fatica, ci ho impiegato molto tempo e non sono del tutto sicura di esserci riuscita veramente, ma credo di essermi finalmente innamorata di questo posto.

Di questo luogo, molto bello di per sé, tanto da essere meta turistica gettonatissima,
mi accorgo soltanto ora.
A due passi da casa mi ritrovo meravigliata e invasa di luce.

Come per tutte le cose, l’oggettiva bellezza di un qualcosa o un luogo,
non può nulla di fronte all’incapacità di essere percepita.
Se chi guarda ha le lenti di un’interiorità disordinata e tesa,
non c’è meraviglia, non c’è colore, non c’è entusiasmo.

Ieri erano sassi.
Oggi somiglia sempre di più ad un paradiso.

(foto: spiaggia Giamaica, Sirmione)

Il tarlo (e gli esercizi di ripristino)

Lesende-Sophia-Kramskaya-von-Ivan-Nikolaevich-Kramskoy-20075
Se aspetto che mi venga in mente qualcosa di intelligente per iniziare a pubblicare con regolarità e costanza, rischiamo le calende.
E allora niente. Ho un tarlo nel cervello.
Una quota cerebrale congelata in forme obsolete, sequestrata da protocolli ormai da soffitta, anzi, da discarica.
E il tarlo, in questa, indefessamente pasteggia.
Devo dedurre che continuerà a farlo finché la mia testa non sarà adeguatamente bonificata con volontà consapevole e costanza devozionale. (Il Dio di riferimento, in questo caso, sarei io).

I cunicoli scavati dal tarlo saranno, infine, mille milioni.
E tutto crollerà.
Le congetture franeranno, le linee guida si frantumeranno ed eventuali residui sensi di colpa, saranno già sgonfi da un pezzo. Ma questo si chiama Alzheimer.
Il Tarlo va stordito, sconfitto, estirpato.

La malattia si chiama Attaccamento Al Passato.
E oltre ad essere piuttosto sgradevole ha un titolo francamente troppo lungo.
Ma tra le pieghe del suo esistere, pessimo e dannoso, un suo senso ce l’ha.
Un utilissimo senso: mostrare gli errori per non rifarli più.
Se poi, come succede alla sottoscritta, si esercita la cretineria in loop, allora giriamo il tutto alla psichiatria. Ma l’attaccamento alla vita può fare grandi cose. Soprattutto se non hai i soldi per una seria terapia.

Un modo che mi piace è questo: ci si dispone ad analizzare eventi passati così come si rilegge un libro importante per la seconda (o terza) volta, dopo anni.
Rileggere i propri decenni con una coscienza nuova e con un’opportuna distanza dagli eventi è provvidenziale.
Fastidioso ma provvidenziale.
Certe evidenze prima mai riconosciute, stordiscono. Traumatizzano la Te che sei diventata, nel frattempo, sputando sangue, arrampicandoti sui ginepri e facendo quintali di fatiche inutili.
Ma quando l’oscillazione emotiva e l’uragano mentale si calmano, beh, digerisci la lezione e guardi di nuovo l’orizzonte.
E hai fatto un passo da gigante. Un altro.

ESERCIZIO: stampare alcuni punti salienti dei propri diari in un A4 verticale con testo disposto solo su una di due colonne.
Lasciar riposare i fogli per qualche settimana.
Rileggere l’opus gigantesca (il lavoro può durare una vita, se scrivete da una vita e siete delle drama-queens) immaginando che lo scritto sia di qualcuno a cui tenete parecchio tipo vostra madre, qualche vostro avo, un’amata sorella, ecc.
Rileggere quindi, e, nella colonna vuota, replicare per iscritto ad ogni stronzata galattica che state leggendo sulla colonna stampata, attingendo alla presunta maggior saggezza della vostra mentalità attuale.
Può accadere che vi si strabuzzino gli occhi, vi si allunghino i canini e orripiliate allegramente in ogni centimetro quadrato della vostra pelle.

Pellaccia che, nonostante tutto, avete portato a casa.
Vi assicuro che, in alcuni casi, per stare meglio bastano dieci righe tra mille.
Se avete culo di trovare quelle che si incastrano alla perfezione con la paranoia del giorno.
E ciao.

Fate finta di niente

tempus_fugit_vintage_absinthe_advertising_print_postcard-rfe50590daae04a4e84cbf24ed1334bd5_vgbaq_8byvr_1024
“Ciao” una cippa.
Avevate dubbi?
Non mi giustifico neanche.

[Tra le varie motivazioni della sparizione, ne citerò una sola per un fine preciso (la speranza che provochi azioni, chiamiamole, coerenti): non volevo che le mie riflessioni finissero direttamente nella casella e-mail o nel lettore WP di persone con cui ho interrotto il rapporto in malo modo: sento che è una cosa assurda, distorta e malsana.]
[Cioè, non mi blocchi su Fb e poi ti leggi le mie scemenze qui, giusto?]

Questo caldo autunno mi ha traghettata verso una specie di pace con me stessa.
Speriamo che duri. Speriamo, soprattutto, che sia vera.
Molte cose della vita mi sembrano più facili, quasi più belle, nonostante, oggettivamente, siano rimaste identiche a se stesse.
Ci pensavo stasera, mentre sentivo il freddo e la tremenda umidità del lago, stretta in un cappottino non troppo pesante, con la solida e piacevole convinzione che fosse tutto perfetto così. Anche il freddo. Anche l’umidità.

Le stagioni non corrono: scapicollano vertiginosamente, ogni giorno di più.
Questa percezione aiuta a collocare al giusto posto eventi, priorità e realtà di vario genere, perché provoca inevitabilmente un crudo e sincero faccia a faccia con la vita.
Aumenta così, in modo esponenziale, il godimento della realtà. Qualunque essa sia.
Più c’è apertura, più c’è vulnerabilità, più c’è potenziale.
Più gli abissi sono scuri, più i cieli sono azzurri.
E’ una Legge.

Tutti dovremmo indossare, il prima possibile, occhiali con lenti color Tempus Fugit.
A presto, gattacci

Ciao

This-Is-The-End-poster
Ho avuto due blog in tutto. Questo è il secondo e l’ultimo.
Il primo ha fatto una brutta fine a causa della mia mentalità rituale del “fare fuori per cambiare dentro”: l’ho cancellato per voltare pagina.

Altri tempi, altra età. Nessun giudizio. Andava bene così.
Ora sono cresciuta (molto in età, mai abbastanza di coscienza) e sono maggiormente in grado di sostenere errori, vergogne e qualunque altra lagna che potete trovare qui sopra.
Non cancellerò il sito.
Ma cambio aria.

Non so quanto tempo passerò ancora in silenzio stampa.
In ogni caso, ci fosse qualche interessato alle mie elucubrazioni (non si sa mai) scriva l’indirizzo email nei commenti o se preferisce a gattointeriore-at-yahoo.it.
Non mancherò di comunicare l’eventuale nuovo indirizzo web.
Intanto grazie, grazie, grazie per questi 7 anni di condivisione virtuale.
Tutto finisce.
E se non finisce, necessariamente cambia.
Un abbraccio dal Gatto Interiore.

Segni

IMG_5263
Sul profilo personale di FB (che è ben peggio di una pagina goliardica) sono solita pubblicare i miei famigerati “ritrovamenti”, ovvero immagini di oggetti (o animali o qualunque cosa insomma) trovati in giro, per caso, ai quali affibbio un significato in linea con la convinzione che “tutto ci parla”.
Ogni cosa notata è un segno, una via, un’indicazione, un cartello sottovoce.
Molti pensano che io sia “originale” (per non dire pazza), altri mi ridacchiano addosso con sufficienza (e rigorosamente in silenzio stampa) ed altri ancora collaborano alle definizione oracolare con gran gusto e vivace partecipazione.
Un divertimento collettivo in cui ognuno finisce per manifestare il riflesso delle proprie convinzioni. Io prima di tutti.
A me piace troppo questa cosa.

Ma mica è un gioco.

Se vedo un ragno, e lo vedo di sicuro (vedi articoli passati intitolati Fobie), mica lo fotografo per forza ogni volta.
Ma se abita da settimane lo specchietto dell’auto oppure staziona immobile come un gatto di marmo al di sotto della MIA cassetta della posta, beh, per me è pacifico che ha da dirmi qualcosa.

Stasera questa bestia, che probabilmente alla prima luce del giorno entrerà a fare la bella statuina sulla mia bolletta dell’Enel, mi ha fatto venire in mente come prima cosa il proverbio popolare secondo cui “ragno, guadagno”.
Una stronzata galattica, dico io.
Sapete quanti ne ho trovati come quello? Eppure.
Che funzioni proporzionalmente alle dimensioni?
Perché, allora, i miei sogni di gloria potrebbero far apparire una tarantola gigante direttamente sul soffitto della mia camera.
Anche no.

Dopo più di due mesi di silenzio potevo anche scrivere qualcosa di più interessante.
Anche no.

ToDo

aquilone
Fare. Non pensare.

Frase scritta diligentemente nella prima pagina delle mie agende dal 2001 al 2007.
Voglio dire, come al solito, prima che una consapevolezza mi esploda nella pancia mandando schegge ovunque e – per fortuna – fin nel cervello, questa mi appare sullo schermo dell’intelletto operaio e si traduce in sequenze verbali e concettuali dalle quali sono irresistibilmente attratta.
Delle quali subisco il fascino, come di una cosa ben descritta, chiara, scintillante
e tuttavia misteriosa.
Come di un oggetto perfetto, finito e pronto di cui non si conosce l’uso.
La lenta carburazione del mio essere fa di me un’ottima teorica di corposa sapienza
a cui manca il decreto attuativo.
Un interessante programma a cui manca il file .exe. O .dmg, come vi piace.

Quello che voglio capire.
Ho paura di non essere capace?
Ho paura di essere capace?
Ho paura del fallimento?
O del successo?

Sono giornate pesanti, queste.
Ma all’aquilone del mio sorriso non si è rotta più la corda.
Ciao gatti.