Atlantide

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E un giorno, senza preavviso, arriva il mattino a scostare il sipario polveroso e pesante.
Il sole irrompe. Sano, forte, fastidioso come una medicina necessaria e sgradita.
Troppi giorni di sola notte, davvero troppi.
E la natura ristabilisce bruscamente ciò a cui tende: un sano equilibrio.
Notti tranquille e giorni luminosi.

Nella vertigine e nel caos che preannunciano la guarigione,
inizia già una specie di frescura all’interno.
Il respiro diventa azzurrino, leggero, ampio e frizzante.
Parti del corpo non percepite da tempo pulsano, vibrano, tornano a vita.

Si arriva a questo.
Si arriva a questo, si.
Riconquistare parti perdute.
Riscoprire continenti dimenticati.
Ritrovare l’Atlantide di sé.

Buonanotte gattacci.

L’eterno ritorno

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Ho la febbre e mi sento libera dal “dover” fare tutte quelle cose normalmente ideate o pronunciate dopo, appunto, questa odiosa parola: “devo”.
Mi ritrovo qui con una rivista in grembo, approcciata come fosse un film o un seminario sulla ricerca di se stessi.
Sono un po’ annebbiata e le associazioni mentali corrono libere e velocissime e penso che molte cose di molti anni fa, sono tornate nella mia vita alla grande.
Tutto è ritornato: la lettura delle riviste con quel senso un po’ metodico e rituale. E con quell’infantile (infantile?) abitudine di strappare le pagine con le foto di una bellezza incredibile e con gli oggetti che mi piacciono molto.
Basterebbe aprire la cartellina blu, quella dove conservo i ritagli – che ogni tanto guardo – per capire chi sono.
E’ tornata, tanto per fare insospettabili esempi l’Eau Dynamisante di Clarins, diligentemente scritta nella lista di cose da comprare “prima o poi”, la ricerca dei profumi di Serge Lutens (e li ho trovati!), il cucire un po’ ogni tanto, il mettere mano ai pennelli, l’astrologia, una maggior cura del corpo (che ha un po’ risentito di questa specie di medioevo appena trascorso) e, in definitiva, l’atteggiamento sacro generale che rende ogni cosa lo step di chissà quale percorso.
Non torno alle enciclopedie per il solo motivo che adesso ho internet.
Scrivo queste cose perché sono malata ed annoiata?
No. Questa è la parte più sana della sottoscritta.

A prima vista parrebbe un tornare indietro.
Ma io preferisco pensarla come una ripresa. Un ritorno su un’ottava più alta.
Come un altro giro sulla spirale. Uno dei più onesti, direi.
Sono sempre stata tentata di pensare di aver perso un sacco di tempo.
In realtà ritrovarsi oggi può essere solo il segno di un lavoro svolto – un enorme lavoro svolto.
Una gavetta indispensabile per radere al suolo tutto ciò che non è struttura autentica.

Scrivo moltissimo in un diario privato. Come anni fa.
Ritrovo la mia ironia, la mia scioccante e sincera profondità, le plateali ammissioni circa paure, carenze e piccole follie.
Chissà che non torni a fare un po di teatro anche qui sopra.
Per il momento pare di no.
Ciao gatti

Documentari forever

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Dopo molti anni – ma molti – di radio, cd, libri e seghe mentali serali, lo scorso autunno ho acquistato un televisore.
Non ho ancora dimestichezza con quell’arnese.
Ci sono un sacco di canali. Io ero rimasta ferma a 6/7, ecco.
Prima di cena leggo su internet la programmazione alla ricerca di un film.
Poi, e vorrei sapere che siti guardo, una volta seduta sulla poltrona e pronta alla visione, spesso scopro che nel tal canale c’è tutt’altro.
Allora, per nulla padrona della situazione, ancora oggi, dopo mesi in cui per la maggior parte del tempo spolvero lo schermo spento, accendo la tv al canale 1 e poi al 2.
E poi al 3, al 4, e vado avanti sperando di incontrare qualcosa che possa interessarmi.
Stasera mi sono spinta in là come non mai e sono stata folgorata sulla via di Damasco scoprendo il canale 56. “FOCUS”.
Ho finito la cena, adesso.

Da grande voglio fare l’astrofisica e andare a caccia di buchi neri e raggi Gamma.
Nel tempo libero, filmare i castori canadesi della Patagonia mentre rosicchiano i tronchi
e fanno gara con il picchio rosso di Magellano e il suo compulsivo tic distruttore.
Adesso mi guardo tipo chilometri e chilometri di ghiacci, il condor delle Ande e anche qualche fenicottero.
E ciao.

Il Baldo

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Per fortuna ci sono giorni in cui esco da me stessa e esploro con leggerezza ed una specie di allegria il mio Io più grande.
Quello vero.
Che lagna! Come sono stufa delle leziosità dilaganti! Anche e soprattutto delle mie.
Come sono stanca del ritrito e delle clonazioni selvagge!
Come è vitale il mio corpo e come lo soffoco con una mente fuori moda!
Come è vicina la primavera e come capisco che reagisco al ritmo terrestre come una qualsiasi altra bestia.

Come sono stanca di pretendere da me condizioni originate da pensieri che non sono neanche miei!
Che senso ha potenziare il motore quando ancora non si va a pieni giri con quello che c’è?
E’ qui l’inghippo, l’equivoco, l’errore.
Aprire gli occhi e richiuderli subito perché realizzi lo spreco.
Aprire gli occhi ed abituarti alla nuova luce.
Che non è mai quella del giorno prima.

Piove. Mi aspetterei la neve. Ma ad essere sincera la mancanza del gelo è un sollievo.
Comunque al mio paese nevica. Mi mandano foto che fanno vibrare la radice.
I bastoni scuri dei vigneti che inquadrano il candore. Gli alberi bianchi, le distese candide.
Pare di sentirne pure il silenzio. E mi viene in mente una vecchia foto di mio padre.
Mio padre con un berretto di lana, i pantaloni e le scarpe da lavoro, mentre spala la neve.
Poi sposto lo sguardo fuori e torno. Scelgo dove mi trovo ora. Per il momento.
Il mondo è grande e abbiamo, relativamente parlando, così poco tempo.
Sviluppiamoci in lungo e in largo.

Quando la mattina percorro i pochi chilometri che mi separano dal lavoro, alla mia sinistra posso vedere il Baldo che si specchia sulle acque del lago.

Non posso fermarmi a fotografarlo. Primo perché ci vorrebbe una vera macchina fotografica. Secondo e non ultimo in ordine di importanza, sono sempre in ritardo.
Ci manca solo che mi metta a vagare in mezzo alla statale con gli occhiali sul naso e il telefono puntato in aria, alle 8 del mattino.
In certe mattine, la punta coperta di neve del Baldo, ad Est si colora di rosa.
E’ di una bellezza incredibile.
Bianco, rosa, poi lo scuro del monte e sotto infine, il lago che, in base alla luce, ai venti e alle correnti, ogni giorno mostra un volto diverso.
Ci sono giorni di increspature straordinariamente blu. Giorni, invece, in cui è uno specchio azzurro con gigantesche chiazze in tono, lentamente cangianti.
Ma anche – e spesso in questa stagione – giorni in cui si stempera in una densa lattiginosità al punto da cancellare i confini, nascondere il massiccio ed invadere il cielo.

Il Baldo si specchia sulle acque del lago.
Visto da qui è un triangolone regolare, stabile, possente e tranquillo.
E invece è una lunga cresta, che si sviluppa verso nord (più o meno).
Un dinosauro di roccia, di cui io vedo solo un’estremità.
Il Baldo come metafora della Verità, e della verità di ognuno di noi.
E adesso ciao.

Personal opera soap

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(Advisory: diario personale – saga familiare)

Lo Zio Bestia, così lui stesso amava definirsi, è stato il primo ad andarsene.
Un uomo tormentato, che quel giorno, privato del soffio vitale, lasciava in bella vista quello che pareva il corpo di un ragazzo, giovane, finalmente sereno.
Trasformato, liberato. E qui davvero non si tratta di cliché.
Ricordo ancora benissimo il suo volto.
Lui faceva parte di quel mondo che da piccola frequentavo spessissimo (per forza di cose)
e in modo sofferto: la famiglia di mio padre.
Una famiglia severa, adombrata, segnata da accidenti di vario genere e dall’innegabile impronta di una non agile abilità relazionale.
Tutti i fratelli e le sorelle dei miei nonni non erano sposati, erano molti, con nomi stranissimi, erano caratterizzati da particolarità creative e di alcuni di loro, conosciuti in tenerissima età, conservo un vago ricordo che talvolta mi pare un sogno.
Erano soli. E come succedeva una volta, vivevano comunque tutti insieme.
Una famiglia di senza famiglia.

La nonna, rimasta vedova piuttosto presto nell’esatto modo in cui restare vedova coincideva con stenti di una certa portata, ammantava la casa di polso, di severità, di “dovere” e di cattolico rigore.
In tutto questa clima pseudogotico, spiccavano papà che pur non essendo esente da inevitabili ripercussioni stilistiche sul genere, conservava nonostante tutto una leggerezza infantile e pulita, mia madre – che meriterebbe un capitolo a parte – e un elemento veramente diverso.
Non posso spendere solo parole buone perché non dimentico fattacci abbastanza gravi che la coinvolgono direttamente, ma questa zia acquisita, perché di lei sto parlando, portava in famiglia un’aria piuttosto gioiosa e mondana difficile da dimenticare.

Il punto è che lei, accasciandosi in una strada del paese nel pomeriggio di un giorno di festa, probabilmente durante una banale passeggiata, segna uno step fondamentale, non so ancora bene in che modo, nell’emancipazione dalla famiglia d’origine.
O forse sarebbe più corretto dire nell’elaborazione della famiglia d’origine.
Dell’eredità ricca e pesante di questo ramo ascendente che sento di incarnare piuttosto ampiamente.
Sento che è un momento importante, perché lei, come lo Zio Bestia ed un paio di altri sono stati i protagonisti di quell’antro scuro e spinoso in cui ho inequivocabilmente sviluppato barriere, divieti e tabù che ancora oggi mi condizionano.

La cosa quindi mi tocca. E dato che non ho condivisioni affettive recenti con lei che possano giustificare questo, comprendo che la vita, per l’ennesima volta mi sottopone uno spunto di riflessione, dragandomi il fondo e permettendomi di sviluppare e risolvere latenze che non saprei come recuperare altrimenti. Una specie di bastoncino che muove un poco la nita (fanghiglia) del fondale.

Uno va a fare una passeggiata. E dopo un po’, di colpo, cambia tutto.
Uno viene a conoscenza del fatto e gli si apre di colpo una botola nel cervello.
E pur non comprendendo il nuovo panorama che gli si presenta, sente che qualcosa è cambiato.

Siamo appesi ad un filo.
La vita è bella.
E ogni giorno è un dono.
E non sono frasi fatte.

E ciao.

Arrendersi

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Non c’è più tempo.
Anche se c’è un sacco di tempo in ogni attimo.
Questo non mi da però il permesso di sprecarne altro.

Mentre le uova si schiudono in massa e le eccellenze si moltiplicano ad ogni angolo di strada, io che le sbaglio tutte, continuo imperterrita ad identificarmi in ogni cosa che osservo, trovo e vivo.
Mi sono arresa ormai e resto quel che sono. E’ più rilassante.
Io e le mie foto. Io e i miei giochetti del cazzo.
Trovo interessante ad esempio la storia della pigna.IMG_8113

C’è qui una piccola pigna, migrata con me durante il trasloco,
che rotola da mesi sulla terrazza come gioco per gatti e che, dopo almeno tre anni di forma fissa, di morte apparente, inaspettatamente si è chiusa sotto una notte di abbondante pioggia. Per riaprirsi, poi, alla prima secca atmosferica. Tornata come nuova.
So bene che è un fatto plausibile, normale, ma averlo notato fa la differenza.

A volte l’immobilità non è morte ma letargia salvifica.
Uno stare con quello che c’è nell’unico modo in cui ci si può stare.

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L’arco nudo

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Per me l’anno finisce qui.
In effetti non manca molto.
Non manca molto soprattutto per il solstizio del quale non sto ad approfondire il senso fondamentale.
Momento cosmico che celebrerò con un rito dagli effetti indelebili perchè non mi fido molto né della mia memoria né della mia mente in generale che, di norma, si inventa davvero qualunque cosa.

Il 2014 ha maturato i semi del 2013.
Se io li ho vissuti come sviluppi ulteriormente peggiorativi è per un errore di fondo: interpretare eventi e condizioni attraverso un codice sordo e insensato.
Un miscuglio di responsabilità, fiducia, scelte, solitudine, illusione, Saturno, Chirone, ingenuità, reattività, premenopausa, paure, ecc. E tanta, tanta fantasia.

E anche perchè non sono abituata a buttarmi senza paracadute né senza fondata speranza di trovare appigli.

Ma se scelgo di farlo poi non devo rompere le palle.
Ho scelto io di non avere il mirino, le protezioni e frecce adatte.

Il dono del 2014, annata scorrevole come un chewingum sul velluto, è stato l’aprirmi gli occhi sul misteriosissimo senso della parola “responsabilità”.
Che è un concetto composto: assumersi la responsabilità e farsi carico delle conseguenze.
Molta gente, per prima io, dimentica la seconda parte.

Celebrerò questo momento scegliendo un simbolo adeguato a quello che ho appena detto.
Nel serio tentativo di tenere ben presente in ogni momento delle mie giornate che Tutto, con il benestare del superiore disegno di cui faccio parte, procede da un unico nucleo e ad esso ritorna: me stessa.

PS: ha smesso di piovere ed è già buio.
Ho passato l’aspirapolvere, mi sono fatta un té.
Le Pellicce stanno bene.
Aspettiamo il Sol Invictvs. Ma non con le mani in mano.
Ciao gattacci.

Respiro

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L’occhietto difettoso del mio gatto è poesia.
Il cielo fedele ed eterno è poesia.
L’acqua, trasparente, plastica, viva, è poesia.
Il ritmo del cuore, il movimento infinitesimale del corpo sono poesia.

L’elettricità nell’aria, il suono, il susseguirsi di odori.

La percezione è poesia.

La calma, il silenzio, lo sbocciare e il transito del pensiero.
L’esplosione e la flessione dei sentimenti.
Gli occhi chiusi.

Gli occhi aperti, la luce e l’entrata e l’uscita delle cose.

Lo stare immobili è poesia.
Il movimento, il ritmo.
Il numero che si ramifica in un apparente caos, è poesia.
Stare è poesia.

Esserci è un atto poetico.
Di bellezza infinita.

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