Una timida singolarità

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Agli amici. Agli sconosciuti gentili.
Agli irritanti, ai maleducati, a chi lo fa apposta,
a chi non lo fa apposta.
A chi sa e a chi non sa, a chi pensa male, a chi crede.
A chi si fida, a chi si impegna, a chi non si cura.
A chi c’è, a chi non c’è, a chi osserva da lontano,
a chi da uno schiaffo, a chi stringe forte.
A chi sprona, a chi ostacola, a chi danneggia, a chi aiuta.
A chi prova, a chi fa, a chi rinuncia.
A chi resta e a chi fugge. A chi guarda, non visto.
A tutto quello che c’è e a tutto quello che non c’è,
al di là da ciò che si crede di volere.
All’essere, al non avere, al pieno
e al vuoto – più sacro di ogni altra cosa.
Al cielo, alla terra, all’acqua, al sentire.
Al dubbio, all’eterna saggia incertezza.

Per tutto c’è una sola parola.
Grazie

Personal opera soap

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(Advisory: diario personale – saga familiare)

Lo Zio Bestia, così lui stesso amava definirsi, è stato il primo ad andarsene.
Un uomo tormentato, che quel giorno, privato del soffio vitale, lasciava in bella vista quello che pareva il corpo di un ragazzo, giovane, finalmente sereno.
Trasformato, liberato. E qui davvero non si tratta di cliché.
Ricordo ancora benissimo il suo volto.
Lui faceva parte di quel mondo che da piccola frequentavo spessissimo (per forza di cose)
e in modo sofferto: la famiglia di mio padre.
Una famiglia severa, adombrata, segnata da accidenti di vario genere e dall’innegabile impronta di una non agile abilità relazionale.
Tutti i fratelli e le sorelle dei miei nonni non erano sposati, erano molti, con nomi stranissimi, erano caratterizzati da particolarità creative e di alcuni di loro, conosciuti in tenerissima età, conservo un vago ricordo che talvolta mi pare un sogno.
Erano soli. E come succedeva una volta, vivevano comunque tutti insieme.
Una famiglia di senza famiglia.

La nonna, rimasta vedova piuttosto presto nell’esatto modo in cui restare vedova coincideva con stenti di una certa portata, ammantava la casa di polso, di severità, di “dovere” e di cattolico rigore.
In tutto questa clima pseudogotico, spiccavano papà che pur non essendo esente da inevitabili ripercussioni stilistiche sul genere, conservava nonostante tutto una leggerezza infantile e pulita, mia madre – che meriterebbe un capitolo a parte – e un elemento veramente diverso.
Non posso spendere solo parole buone perché non dimentico fattacci abbastanza gravi che la coinvolgono direttamente, ma questa zia acquisita, perché di lei sto parlando, portava in famiglia un’aria piuttosto gioiosa e mondana difficile da dimenticare.

Il punto è che lei, accasciandosi in una strada del paese nel pomeriggio di un giorno di festa, probabilmente durante una banale passeggiata, segna uno step fondamentale, non so ancora bene in che modo, nell’emancipazione dalla famiglia d’origine.
O forse sarebbe più corretto dire nell’elaborazione della famiglia d’origine.
Dell’eredità ricca e pesante di questo ramo ascendente che sento di incarnare piuttosto ampiamente.
Sento che è un momento importante, perché lei, come lo Zio Bestia ed un paio di altri sono stati i protagonisti di quell’antro scuro e spinoso in cui ho inequivocabilmente sviluppato barriere, divieti e tabù che ancora oggi mi condizionano.

La cosa quindi mi tocca. E dato che non ho condivisioni affettive recenti con lei che possano giustificare questo, comprendo che la vita, per l’ennesima volta mi sottopone uno spunto di riflessione, dragandomi il fondo e permettendomi di sviluppare e risolvere latenze che non saprei come recuperare altrimenti. Una specie di bastoncino che muove un poco la nita (fanghiglia) del fondale.

Uno va a fare una passeggiata. E dopo un po’, di colpo, cambia tutto.
Uno viene a conoscenza del fatto e gli si apre di colpo una botola nel cervello.
E pur non comprendendo il nuovo panorama che gli si presenta, sente che qualcosa è cambiato.

Siamo appesi ad un filo.
La vita è bella.
E ogni giorno è un dono.
E non sono frasi fatte.

E ciao.

Solstizio

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La notte più lunga dell’anno.
Nella notte più lunga della mia anima.

Buon solstizio
(PS: questo è il mio post n. 500. Cade male, ma tant’è.)

L’arco nudo

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Per me l’anno finisce qui.
In effetti non manca molto.
Non manca molto soprattutto per il solstizio del quale non sto ad approfondire il senso fondamentale.
Momento cosmico che celebrerò con un rito dagli effetti indelebili perchè non mi fido molto né della mia memoria né della mia mente in generale che, di norma, si inventa davvero qualunque cosa.

Il 2014 ha maturato i semi del 2013.
Se io li ho vissuti come sviluppi ulteriormente peggiorativi è per un errore di fondo: interpretare eventi e condizioni attraverso un codice sordo e insensato.
Un miscuglio di responsabilità, fiducia, scelte, solitudine, illusione, Saturno, Chirone, ingenuità, reattività, premenopausa, paure, ecc. E tanta, tanta fantasia.

E anche perchè non sono abituata a buttarmi senza paracadute né senza fondata speranza di trovare appigli.

Ma se scelgo di farlo poi non devo rompere le palle.
Ho scelto io di non avere il mirino, le protezioni e frecce adatte.

Il dono del 2014, annata scorrevole come un chewingum sul velluto, è stato l’aprirmi gli occhi sul misteriosissimo senso della parola “responsabilità”.
Che è un concetto composto: assumersi la responsabilità e farsi carico delle conseguenze.
Molta gente, per prima io, dimentica la seconda parte.

Celebrerò questo momento scegliendo un simbolo adeguato a quello che ho appena detto.
Nel serio tentativo di tenere ben presente in ogni momento delle mie giornate che Tutto, con il benestare del superiore disegno di cui faccio parte, procede da un unico nucleo e ad esso ritorna: me stessa.

PS: ha smesso di piovere ed è già buio.
Ho passato l’aspirapolvere, mi sono fatta un té.
Le Pellicce stanno bene.
Aspettiamo il Sol Invictvs. Ma non con le mani in mano.
Ciao gattacci.

Respiro

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L’occhietto difettoso del mio gatto è poesia.
Il cielo fedele ed eterno è poesia.
L’acqua, trasparente, plastica, viva, è poesia.
Il ritmo del cuore, il movimento infinitesimale del corpo sono poesia.

L’elettricità nell’aria, il suono, il susseguirsi di odori.

La percezione è poesia.

La calma, il silenzio, lo sbocciare e il transito del pensiero.
L’esplosione e la flessione dei sentimenti.
Gli occhi chiusi.

Gli occhi aperti, la luce e l’entrata e l’uscita delle cose.

Lo stare immobili è poesia.
Il movimento, il ritmo.
Il numero che si ramifica in un apparente caos, è poesia.
Stare è poesia.

Esserci è un atto poetico.
Di bellezza infinita.

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Monster: catturato e descritto

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Possiedo un prezioso, sconfinato, spaventoso vuoto.
Possiedo quello che ho sempre temuto.
Il nulla. L’ottava bassa della pace.
Una cosa, comunque, palesemente finta.
Voglio dirlo. Non voglio trattenere e contaminare i nuovi germogli.

Sembrerebbe una lunga permanenza in una stanza di lenta e progressiva deprivazione sensoriale.
E invece si tratta del contrario.
Se gli stimoli esterni sono pressoché pietrificati, i sensi sono tutti accesi dentro.
Certo un po’ di narcosi nel quotidiano è indispensabile.
Ma quando torno a casa..
Quando torno a casa si apre la botola e mi butto, senza resistenze.

Sono dentro il film.
Entro ed esco ( ma non del tutto) da lunghi tunnel pieni di immagini, sensazioni, colori. Emozioni pure.
Il tratto caratteristico è il colore.
Il colore, non saprei come altro definire la vibrazione modulata.
Ora a bassa frequenza, cupa, pesante, ora velocissima, chiara, cristallina, vertiginosa.
Emozioni pure.
Le acque.
Cavalcare l’onda, farsi schiaffeggiare dai flutti.
E bere anche. E spesso.

Frasi dimenticate che affiorano ed esplodono in superficie con una violenza inattesa.
Piccoli particolari e sensazioni di un passato ormai remoto, al momento negate e congelate, che risalgono frantumandosi al confine con la luce e scoprendo progressivamente quella verità tanto temuta e perciò fortemente rinnegata.
Un successivo senso di liberazione che viene conquistato a caro prezzo.
A carissimo prezzo.
Il dolore. Non posso chiamarlo in altro modo.
Qualcosa che scioglie bruciando.
É un bruciore continuo. Una fiamma pilota che a tratti si espande e incendia tutto.
A volte solitudine impotente.
Strappo. Cose che si strappano. Non so nemmeno quali!
Frantumazione, scioglimento, vapori dall’odore intenso e pungente.
Pezzi che cadono, nodi che si slegano, giunti che si polverizzano.
Tutto disarticolato, caotico, decadente.
Povero.
Essenziale.

Il tempo corre troppo velocemente.
Com’è possibile che certe cose, rimaste incollate dentro, restino intatte, come fosse accaduto ieri?

Pulizia. Pulizia e mai nutrimento!
Sacrificio, privazione, negazione, diminuzione, separazione.
Fatiche. Poi sintesi.
Ma so che sta per finire.
Saturno, con tutti quei cerchietti intorno, quando parlo di te, momento ciclico e necessario del mio processo evolutivo, altri ridacchiano con finta compassione.
La gente ha paura di queste cose. Le evita. Finisce per non crederle naturali ed in ultima analisi, non crederle per niente. Danno parecchio fastidio. C’è sempre il timore di osservarle e nell’osservarle sentirle risuonare in sé.
Anche solo in un tintinnio remoto ed appena percepibile.
Ti affibbiano i tratti della psicotica. Dell’inconsapevole.
Di quella che si lamenta e non fa nulla per.
Ormai sono quasi due anni che mi passi al pettine.
E allora, allora sai che c’è, amato pianeta di piombo?
Che io ti vengo incontro e mi arrendo.
E la mia resa avrà il movimento dell’acqua sorgiva, filtrata dalla roccia in profondità e resa alla superficie trasparente, gorgogliante, ricca e viva.
E io rinascerò. Molto prima della primavera.

Al settimo cielo

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Mi piace stare seduta qui fuori a luci spente.

Ho una fame tremenda di un abbraccio, di un nido, di una mano rassicurante.
Qualunque grado di autonomia io possa raggiungere non mancherò mai di aver bisogno di poter chiudere gli occhi sulla spalla di qualcuno che mi vuole bene a prescindere.
E in questo mercato emozionale di compensazioni, condizioni e baratti più o meno percepibili, cedo al desiderio di assaporare una nostalgia profonda di te che stanotte ha più di un significato.
Non avrebbe più importanza ora di come sono io, di come sei tu, di cosa possa funzionare o meno, di quanto ci si possa capire.
Sei mia madre. È già tutto.

Certi momenti sono davvero duri, ma poi riemergo e, pur con tutti i miei limiti, cerco di onorare il tuo dono più grande.
Sono qui. E sono felice di essere qui.
E mi manchi.
Ti voglio pensare al settimo cielo.

Qualche spina

È giusto confessare anche errori e debolezze.
Non sono sempre rose e fiori.
E stasera mi chiedo: che ci faccio qui?

Appena sotto le stelle (wake up, get up and go on)

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A chi guarda dalle nuvole sembrerà tutto molto chiaro.

Lo faccio spesso.
Osservo la linea del mio tempo dall’alto.
Ci provo, dico.
Non è mica facile: la memoria è viziata da sentimenti resistenti.
Belli e brutti. Confusi e limpidi. Vecchi e attuali.
La cosa che voglio evitare è che il pretesto del vivere il Qui&Ora, tanto fondamentale quanto unico paradigma di una buona esistenza, mi chiuda gli occhi sulla vera natura delle cose.
Che ci giunge più fedele se non ne dimentichiamo le radici, i percorsi fatti, le scelte seguite. E soprattutto non chiudiamo gli occhi di fronte ai piccoli particolari, alcune lievi sfumature, a torto considerati poco importanti, che fanno invece la differenza.
Poi, è chiaro, si va avanti con ciò che c’è ora.
Anche perché non serve altro. Ora.
E ciò che c’è, ora, è una bella mappa chiara e perfettamente leggibile.

La mappa non è il territorio.
Ma quando sei perso aiuta eccome.

Ed è bastato alzarsi e guardare tutto l’insieme, dall’alto di una stanchezza di cui sono stufa e che impone un maggior rispetto di se stessi e degli altri.

Il bianco soffice delle nubi si frammenta, lentamente si dirada.
Infine termina. Improvvisamente.
Una linea irregolare ed obliqua scopre di colpo il blu del mare.
E poco più sotto, un primo frammento di un colore primitivo, amato ed emozionante: terra.
Così succede, guardando dal finestrino dell’aereo.
Poi bellissime geometrie di verdi, ocra e marroni. Di varie tonalità e di tutte le forme.
E di notte, una rete di luci che si addensano. E poi si stemperano a piccoli punti nel buio del suolo che dorme.
E poi ancora, se l’ora e la zona lo consentono, alzare lo sguardo all’orizzonte e scorgere l’abbraccio tra la notte e il giorno. E accorgersi.
Accorgersi del senso e della natura del tempo. Comprendere profondamente che possiamo – dobbiamo – rifare tutto.
Perché ancora un solo minuto in questo spreco di spazi, di risorse, di parole, di attenzione e di tempo stesso, è un insulto alla Vita.
Wake up, get up and go on.