Parole inutili

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E’ inutile ribadire il blu profondo ed intenso del cielo di stasera?
Lo vedranno tutti. Perché scriverlo?
E’ inutile celebrare Bellezza e meraviglia?

E’ inutile traghettare sogni, pensieri ed emozioni fuori dal proprio universo, affinché chi sta fuori possa intercettare il varco?
E’ inutile il prodromo dell’Unione?
E’ davvero inutile l’espressione creatrice per eccellenza?

Parola, Verbo, Nome.
Altrimenti, un’isola irraggiungibile.

Foto: web

Pensieri sparsi e predicozzo finale con tracce di cielo

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Nell’ultimo anno ho avuto l’impulso di chiudere il blog tipo 200 volte,
di cui 100 solo nell’ultimo mese.
Per due motivi. Uno non lo dico. L’altro é che mi sono messa in testa che esso rappresenta il mio passato e, precisamente, i miei anni di piombo.
Dato che agogno il cambiamento come bramo la brioche stamattina (sono riuscita a prendere al volo il primo treno, da non credere: anche la colazione, sarebbe stato troppo) mi é salita una specie di antipatia verso tutte le svariate emozioni descritte fino ad oggi.
Scappare dal già vissuto. Il vissuto male, s’intende.
Questo blog é assolutamente autoreferenziale.
Naturale: si chiama DIARIO.
É una mappa abbastanza affidabile della mia struttura mentale, complessa, un po’ barocca e perennemente work in progress arricchita da frequenti cazzuolate di materia astrale dai toni tendenzialmente cupi.
Molto color sangue venoso (dolore), molto rosso arterioso (rabbia e improvvisi benché rari accessi di vitalità), poche spennellate di azzurro cielo: i miei rari momenti santi.
Poche perché naturalmente l’azzurro si vive, non si scrive.

Dicevo, in un momento in cui vorrei, più del solito, essere migliore mi viene voglia di cancellare tutto per fare una tabula rasa propiziatoria che agisca, per analogia, anche all’interno della mia scatola cranica.
Sono celebre per aver buttato scatole intere di scritti nell’era del carta e penna. É proprio un istinto antico.
Ma oggi no. Provo a fare qualcosa di diverso.
Complice il mio narcisismo, credo che terrò botta e continuerò qui le mie metamorfosi senza rinnegare ciò che é stato prima.
Mantengo il nome (che mi piace) e magari anche la posizione statistica che, pur essendo sepolta nella massa, nei momenti infantili di smarrimento nonvalgoniente sonoinvisibile sonosolaalmondo, gratifica l’ego mica poco.
Se cambierò idea sarà perché ne aprirò un altro. Se mi prende una ramata forte di follia potrebbe ancora succedere, da un momento all’altro, come un fulmine a ciel sereno. Si fa per dire ‘ciel sereno’ da queste parti. E comunque non mancherò certo di dirlo.

Piangere abbondantemente durante i processi di trasmutazione delle emozioni negative (diciamolo bene: quando stai male come un cane, in pratica), a meno che non si ceda ad una strumentalizzazione vittimistica del proprio stato, é una cosa che non si racconta. C’è il tabù della sofferenza. La gente non vuole sentire parlare di dolore. L’ho capito quando mi é capitato di parlare, molto tranquillamente peraltro, dei lutti vissuti in questi anni: espressioni imbarazzate, percepibile voglia di scappare via, sguardi che cadono obliquamente verso il basso.
In fatto di argomenti, il dolore é scomodo come la masturbazione: a tutti capita prima o poi, nessuno lo dice, moltissimi arrivano a negarlo.
E chi lo esibisce solitamente ha un secondo fine. L’attenzione egoica, il guardatemi sto male, mendicando un sostegno che faccia da lenitivo. Che poi non funziona mai. Nel senso che non guarisce proprio nessuna ferita.
Se invece ti mostri e racconti sinceramente e spontaneamente che hai passato giorni a piangere miseramente mentre qualcosa di te prendeva fuoco, ti senti in imbarazzo, ti senti sfigata, quella che ne ha sempre una.
Fondamentalmente ci si vergogna della propria fallibilità, del sentirsi sventurati, gettando così per l’ennesima volta la responsabilità di se stessi in braccio alla considerazione altrui.
Invece bisognerebbe ammetterlo con semplicità, senza farsi paranoie di sorta e senza fare i salti mortali per mantenere un’immagine vincente che, in quel momento, non corrisponde affatto a realtà.
Adesso, proprio adesso mentre questo flemmatico controllore caracolla tra i sedili di fianco a me, mi scendono due lacrime. Per un attimo mi vergogno. Poi mi dico anche (perché qua dentro siamo in tanti) va be’, non sono tutta così: riesco anche a fare dell’ironia. Due cervelli in uno. Una benedetta dicotomia che non é una frammentazione schizoide ma l’esito di una maturazione lenta ed impegnativa. Il risultato del mio paziente e costante impegno nel liberare ciò che sono veramente dalla massa pastosa delle emozioni che mi ammantano ma che non costituiscono affatto la mia più reale identità.
Grazie signor Osservatore. Rimanga pure tutto il giorno con me. Non se vada come al solito quando scende la sera. Non vorrà mica dirmi che ha paura del buio! Pensi che un giorno veglierà sul mio corpicino mentre me la dormo beatamente. Tanto vale che si abitui.
Conosci te stesso. As usual.

Ore 22
E invece la sera, ancora se ne va.
Come se la sua presenza fosse possibile solo con la Luce.
E credo di non aver detto una fesseria.

Anabasis


Dal greco, spedizione verso l’interno.
Esplorare e conquistare l’entroterra.
Non è una passeggiata.
Insomma non la è quasi mai, se vogliamo essere onesti fino in fondo.
E io onesta la sono.
Immersa, di tanto in tanto, nel mio fondo oscuro, non faccio mai finta.
Per quanto ne so.

Si capisce che mi ero di nuovo inabissata, no?

Avrei voglia di scrivere liberamente cose che originano dall’Ombra, quelle sensazioni nascoste e primitive che tutti noi occultiamo più o meno coscientemente per etica, per rispetto altrui, per paura.
Vorrei trascrivere immagini forti, eticamente scorrette e rivelare le cose scomode e fastidiose che privatamente e con una certa fatica, porto alla luce per trasmutare ed integrare.
Vorrei concedermi uno spazio per il lamento, l’aspra critica, per l’insulto, per l’orrore e per l’oscenità che voglio permettermi in piena consapevolezza, appena prima di cominciare la fatica di astenermene e dissolverne i contenuti.
Vorrei chiamare le cose con il loro nome. Anzi no, con quella qualità tutta mia personale, con quella viziata forma con cui nascono da un certo segmento della personalità.
Quell’identità, tra le tante, che soffre e si torce.
E che forse, sta – finalmente – per morire.
Vorrei sdoganare un rabbioso turpiloquio, corposo e carico di materia. Buttando fuori vecchie bolle di energia compressa e fermentata.
Libera da quella correttezza e quello sforzo trasformativo che accompagnano la mia presunta crescita personale e che vengono solo dopo aver stanato le bestie.
Non posso risolvere i miei mostri senza conoscerli.
E non posso esimermi dall’avere un pubblico, anche solo teorico, per non rischiare di rimangiarmi tutto, rinnegarmi e, in definitiva ricacciare i temuti enti nell’Ombra.
Tutto ciò che non viene esposto alla luce fermenta, marcisce.
Non voglio che la mia carne venga corrotta.
Detto questo, mi calmo, intanto qui non posso farlo.
Dovrò darmi all’espressione figurativa.
E, in ogni caso, ora va meglio.
Che salto, ragazzi.
Sono tornata alla superficie.
Anzi, di più, più in alto: vedo l’azzurro sconfinato del cielo, mio padre, e l’aria è tanta. E fresca. E io respiro. E io sono viva.
Anche voi, gattoni, siete vivi.
Non è una cosa meravigliosa?

Pausa pranzo a cinque stelle

Breve sosta su una delle panchine del Belvedere dedicato a Lina Volonghi.
Oggi il mare ha il colore del cielo e si confonde con esso in un tenue celeste all’orizzonte.
Il sole è nascosto ma scalda.
Il salmastro mi lambisce ad ondate richiamando altri odori e memorie antiche che interrompono questo superbo ed indiscutibile silenzio interiore.
Ma chi sta meglio di me?
Torno in ufficio. Ciao gatti.

Le stelle

La sera, prima di andare a dormire – e questo succede in ogni stagione –
vado fuori sulla terrazza a fumarmi l’ultima sigaretta della giornata.
Mi siedo sulla panchina e guardo il cielo.
Sere come quella di oggi, sono sere fortunate: il cielo ha un neroblu preciso,
lucido e le stelle sono ben visibili.
Potrei dar loro uno sguardo senza fine.
C’è una specie di respiro interno che comincia, ogni volta che guardo una stellata.
Non è una cosa che ha a che fare con l’aria fisica.
E’ una sensazione che mi ricorda qualcosa, una specie di movimento traslatorio fisicamente impossibile ma verosimile se penso al senso di me.
Come se fosse la remota memoria di uno spostamento di coscienza.
Una sensazione totale, viscerale, primordiale.
Ogni volta in cui mi accade riconosco che godere di quella vista da sola,
per quanto sia un’esperienza magnifica, è una specie di dono mancato.
Quelle stelle di luce antica e noi che viaggiamo a folle velocità.
Sta lì il senso degli attimi che non tornano.
E che non ti ho dato.
E che tu non hai potuto dare a me.