Thanksgiving Day

IMG_0566

Non voglio continuare con il seguito del Tredici.
Anche se proprio oggi leggevo il capitolo di un libro che sta a me come l’acqua sta a un disidratato, in cui c’è, ben descritta, la riflessione con cui mi aiuto quando cado nell’inerzia più pastosa che c’è.
Ma non la scrivo se non su richiesta, altrimenti questo diventa un blog da venerdì santo, con conseguente cupo rannuvolamento delle coscienze.

E se non vogliamo vogliamo parlare del Varco, parliamo di ciò che, grazie ad esso, ha un senso.
C’è in me – e oggi è ai massimi livelli – una forma di gratitudine che nella norma dimentico ma che pronta sorge non appena mi radico con l’attenzione nel corpo.
Non mi interessa se i miei pensieri si snodano su immagini “povere” o ridicole. Quel che conta è che rivelino il mio “grazie” di fondo a qualunque cosa o ente mi permetta di essere una qualsivoglia forma di coscienza.
Di esistere, in sostanza.
Capita spesso, quando non sono tutta raggomitolata nella testa, di mettere attenzione sulle mie gambe. Quando cammino, naturalmente. E io cammino tanto.
Ogni volta, e mai mi stanco, percepisco il loro movimento con un certo piacere fisico. Quasi un compiacimento carnale.
Ammiro la loro perfezione.
Penso a come sono fatte le gambe (ho ottime conoscenze anatomiche), alle ossa, ai tessuti che scivolano su se stessi permettendomi il movimento. Penso ai colori dei muscoli, alla consistenza degli elastichini che tengono tutto insieme e permettono una sinergia cinetica che nemmeno il più grande ingegnere del mondo.
Penso anche che le mie gambe esteticamente non mi sono mai piaciute. Ma sono comunque MERAVIGLIOSE.
Si muovono. Che culo, direi.
Mi fanno camminare. Mi spostano nello spazio.
Direi che non è poco. GRAZIE.
Penso alle ginocchia, alle giunture. Mi rammentano le coscette (non so se si scrive con la i o senza) dei polli sotto il cellophane dei supermercati.
E allora, in quel momento, mi illumino: che differenza c’è tra la mia coscia-ginocchio-tibiaperone e la zampetta del pollo al super, a parte dimensioni, DNA e qualche osso in meno?
E allora per esclusione la sento bene, la riconosco, sboccio in un tripudio di meraviglia che pare scontata ma scontata non è.
La Vita è quello che mi distingue da una bistecca, da un pollo pronto da cucinare, da me stessa dopo che sbatterò contro il Tredici.
Nel cumulo dei quotidiani intrighi mentali, mi dimentico spesso di ringraziare per la cosa fondamentale.
E lo scrivo. Affrontando il rischio di essere banale.
Anche la scoperta dell’acqua calda, ha sempre il suo perché.
Fatevi una doccia fredda a Febbraio, sennò.

Il Tredici

20130219-222946.jpg

– Sermone sul Senza Nome (solo per chi non ama cabale e scaramanzie). –

Il titolo del post avrebbe dovuto essere Memento Mori oppure appunto il vero nome del XIII Arcano, detto l’Arcano Senza Nome.
Ma siccome vorrei evitare che i lettori maschi si ravanino compulsivamente nelle mutande e le lettrici evitino di andare a toccare metalli in giro (che col freddo che fa in questo periodo, a molte di noi femminucce ci viene il Fenomeno di Raynaud e poi ci tocca tenere i guanti di lana e seta anche in cucina, oppure prendiamo la scossa), lo chiameremo il Tredici.
Perché anch’io a scaramanzia non sto affatto messa male: se ho una paura (non ditemelo che non sono l’unica perché LO SO) è proprio di finire anzitempo tra le braccia del Tredici.
Sta di fatto che, curiosamente, col Tredici ho un rapporto di concettuale confidenza. Specie dopo gli ultimi suoi soggiorni in famiglia.
Ma, soprattutto, – è questo ciò che vorrei dire e illustrare, incrociando tutto l’incrociabile – dell’idea del Tredici mi servo per fare cose.
Cose difficili come quella descritta nel precedente post.
In concreto, riflessioni risveglianti che mi tolgano dal torpore di certe giornate in cui, di sonnolenza parlando, l’unica differenza tra ciò che faccio di notte e ciò che faccio di giorno è che di giorno lo faccio in posizione eretta. O seduta, se sono in ufficio.

Non ricordo mai i sogni. Ma le poche volte che mi restano in mente rivelano, ultimamente, una frequentazione assidua della sottoscritta con individui (di onirica sostanza, ovviamente) del club presieduto dal Tredici.
La cosa non é che mi esalti troppo. Diciamocelo.
Al limite può farmi pensare che di fatto, in qualche altrove, il Tredici non funzioni come funziona qui e perciò potremmo starcene tutti tranquilli senza fare scongiuri inutili.
In realtà credo che, durante il sonno, i miei neurotrasmettitori facciano spettacoli e prove di teatro tanto per non darmi l’idea di stare a perdere del tempo in quelle 5/6 ore di riposo che mi concedo ogni giorno.
E allora ripescano memorie, le riarrangiano un po’, e già che ci sono mi ammansiscono con questa storia di una presunta immortalità.

Qualunque sia la verità sulla natura dei sogni, nella vita propriamente detta il Tredici è uno spauracchio. Una rottura di palle inevitabile. Una tragedia greca, per tutti.
Soprattutto, per chi non vive pienamente.
Curiosamente, proprio per questo motivo è un prezioso alleato.
Scrivo questa cosa perché poco fa ho letto da qualche parte una frase tipo “agisci come se questa fosse l’ultima ora/l’ultimo giorno/l’ultimo mese…”.
Capite che c’è da dare i numeri.

Cose simili si leggono ovunque: escono dalla spremitura delle storielle di ogni credo religioso e/o filosofico, si trovano come frasi in grassetto nei manuali di auto-aiuto della nuova spiritualità, nei titoli pubblicati sui blog di formazione dei manager e/o venditori rampanti.
Cioè, cosa ci starei a fare io qui a stirare, me lo dite?
Quale corto circuito sinaptico mi porterebbe, come di fatto mi porta sempre, a puntare la sveglia alle 6,23 di ogni domani mattina per recarmi, a foggia di zombie, negli uffici dello Zoo Criminale (mentre con la coscienza mi rotolo al sole a Saint Tropez quattro mesi più in là)?
CON TUTTO QUELLO CHE HO DA FARE?
Con tutto quello che vorrei fare.
Con tutto quello che voglio fare davvero.

C’è un problema: che se ragioni così e agisci davvero di conseguenza, il primo che riesce a catturarti ti porta alla neuro.
Sei la cellula impazzita che crea disordine.
Che ricorda a tutti gli altri che non stanno mica vivendo. Stanno, come minimo dormendo. Allora sei da abbattere. Perché il sistema di difesa che utilizzano non dice loro che stanno dormendo, ma che tu sei uno strano, potenzialmente pericoloso e che se non arrivi a contaminare i normali finirai come minimo a fare del disdicevole barbonaggio. E sulla panchina della stazione, tu non ci piaci.
E tu, siccome anche se proclami il contrario, ci tieni alla stima altrui (e non uso la parola giudizio perché sono stufa di sentirla), al salvagente che la mamma e il papà e la maestra ti hanno infilato qualche tempo fa, capitoli irrimediabilmente nelle corde della maggioranza e ti consoli pensando che intanto c’è tempo.
E invece no. Relativamente parlando, di tempo non ce n’è!
Non quanto la nostra mente parrebbe promettere con tutti questi fiumi di proiezioni future sulle quali surfiamo aspettando il magic moment.
Il magic moment per noi normali è sempre Domani.
Domani, quando smetterà di nevicare, domani quando arriverà lo stipendio, domani quando sarò dimagrita, domani quando mi arriverà quel fantastico libro in cui c’è scritto che il Domani mica c’è. C’è solo l’Adesso. Anche se l’Adesso che c’è scritto là, lo leggerò domani.
Dicono che il magic moment è Adesso.
Io l’ho capito con la testa, davvero.
Ma normalmente decido di pensarlo domani.
Quel che non penso comunque a sufficienza è che il Tredici è ovunque, e allo stesso tempo, sempre ad un braccio da te, come dice Don Juan.
Vurria mai che inciampo e ci finisco vicino.

So bene che sono la centomilionesima persona che scrive queste cose. Ma è una lezione, questa. Una lezione per me.
Per me che sono un’accidiosa da competizione, un’indolente da fumeria d’oppio.
Il Tredici ha mille maschere, si declina in mille versioni, con o senza optionals. Impossibile fregarlo.
L’unica cosa sensata è stare all’occhio e rubargli tempo.
Perché il tempo è elastico e questo è molto chiaro.
In pratica, …

(Fine prima parte – non per creare curiosità o aspettative ma semplicemente perché non ho mai terminato il post che giace nelle mie note da una settimana almeno) (e ve lo propino lo stesso).