La verità su certe noiose omelie.

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Ora che la distruzione sta accelerando senza più alcun freno, come uno scherzo di cattivo gusto, ecco che sorge svelandosi.
Spudoratamente, violentemente, con un boato greve e crescente.
Beffardo ed incurante degli strati inferiori che vanno a fuoco.

Esiste davvero qualcosa di immortale. Invincibile. Eterno.
Molti l’hanno già scritto o detto molto meglio di quanto possa farlo io.
Persino i preti. Non si sa se con cognizione di causa oppure no.
Ma non posso tacere.

Non c’è da sfondare nessuna porta. Basta tirare la maniglia ed aprire.
Non c’é da forzare nulla, né resistere a nulla.
Solo sciogliere, accogliere, arrendersi, abbandonarsi.
Aprire gli occhi. Aprirsi. Svegliarsi.
Non è impossibile. Ma dura così poco.

Ho un nemico e questo nemico ha il mio volto.
La mente mente.
Ho scoperto l’acqua calda, lo so.
E poi, perché arrivarci sempre quando si è in punto di morte?
Morire, sempre morire!
O per vertiginoso amore, o per insostenibile dolore.

Se ami, e sei ancora invischiato di brutto con la tua macchina biologica, l’altro diventa la trivella del tuo pozzo nero. E ad un certo punto la cacca è tanta e ti viene paura e scappi e ti difendi e ti rinneghi. Non capisci che non è il caso di chiudere la botola e far finta di niente come fai con la polvere sotto il tappeto.
Allora, a D-io non resta che prenderti a bastonate fino a quando perdi il controllo, per infilare poi, svelto, il piede in mezzo alla porta in modo che tu possa vedere quello spicchio di luce. Che ti investe e si fonde con te perché la sostanza è la stessa.
E allora è vero che non sei più solo.

Sarei pronta per fare il prete.

Thanksgiving Day

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Non voglio continuare con il seguito del Tredici.
Anche se proprio oggi leggevo il capitolo di un libro che sta a me come l’acqua sta a un disidratato, in cui c’è, ben descritta, la riflessione con cui mi aiuto quando cado nell’inerzia più pastosa che c’è.
Ma non la scrivo se non su richiesta, altrimenti questo diventa un blog da venerdì santo, con conseguente cupo rannuvolamento delle coscienze.

E se non vogliamo vogliamo parlare del Varco, parliamo di ciò che, grazie ad esso, ha un senso.
C’è in me – e oggi è ai massimi livelli – una forma di gratitudine che nella norma dimentico ma che pronta sorge non appena mi radico con l’attenzione nel corpo.
Non mi interessa se i miei pensieri si snodano su immagini “povere” o ridicole. Quel che conta è che rivelino il mio “grazie” di fondo a qualunque cosa o ente mi permetta di essere una qualsivoglia forma di coscienza.
Di esistere, in sostanza.
Capita spesso, quando non sono tutta raggomitolata nella testa, di mettere attenzione sulle mie gambe. Quando cammino, naturalmente. E io cammino tanto.
Ogni volta, e mai mi stanco, percepisco il loro movimento con un certo piacere fisico. Quasi un compiacimento carnale.
Ammiro la loro perfezione.
Penso a come sono fatte le gambe (ho ottime conoscenze anatomiche), alle ossa, ai tessuti che scivolano su se stessi permettendomi il movimento. Penso ai colori dei muscoli, alla consistenza degli elastichini che tengono tutto insieme e permettono una sinergia cinetica che nemmeno il più grande ingegnere del mondo.
Penso anche che le mie gambe esteticamente non mi sono mai piaciute. Ma sono comunque MERAVIGLIOSE.
Si muovono. Che culo, direi.
Mi fanno camminare. Mi spostano nello spazio.
Direi che non è poco. GRAZIE.
Penso alle ginocchia, alle giunture. Mi rammentano le coscette (non so se si scrive con la i o senza) dei polli sotto il cellophane dei supermercati.
E allora, in quel momento, mi illumino: che differenza c’è tra la mia coscia-ginocchio-tibiaperone e la zampetta del pollo al super, a parte dimensioni, DNA e qualche osso in meno?
E allora per esclusione la sento bene, la riconosco, sboccio in un tripudio di meraviglia che pare scontata ma scontata non è.
La Vita è quello che mi distingue da una bistecca, da un pollo pronto da cucinare, da me stessa dopo che sbatterò contro il Tredici.
Nel cumulo dei quotidiani intrighi mentali, mi dimentico spesso di ringraziare per la cosa fondamentale.
E lo scrivo. Affrontando il rischio di essere banale.
Anche la scoperta dell’acqua calda, ha sempre il suo perché.
Fatevi una doccia fredda a Febbraio, sennò.

Vite

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I palazzi del ‘600 e le memorie di secoli incastonate negli interstizi erosi dal tempo.
Le nostre vite, un refolo di vento.
La via Appia scandita da ciottoli millenari, su cui vibrano ancora i calzari di coloro che fummo.
Le nostre vite, un solo respiro.
Gli alberi e le colline. E la terra, memore di infiniti passi.
Le nostre vite, un velocissimo gesto.
Le grandi opere che sanno parlare la lingua di ogni tempo.
Le nostre vite, un filo sottile.
I frutti dell’Uomo, la traccia eterna.
Le nostre vite, anelli di una lunga catena.
I mondi nel Cielo, le galassie, le stelle.
Le nostre vite, materia preziosa di un’istante.

Sguardi aerei

Certe vite sono una sequenza di scelte sbagliate.
Una più una meno, cosa vuoi che sia.
Buongiorno. Si fa per dire.