Soluzioni

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Oscillo tra l’Amore e una bruciante infinita povertà.
Si capisce dov’ero ieri. E si capisce che oggi no.
Non sto a fare il solito quadretto di metafore e spiegazioni per dire cosa mi succede, per far sapere quanto sanguino, da quanto tempo e quanto male fa, perché non è divertente e, alla lunga, divento noiosa.
Ma dopo tanta esperienza – siccome posso piangere a comando, pulirmi correndo, respirando, posso restare immobile quando dentro la frana è nel suo pieno precipitare – mi sento di poter dire una cosa:
ormai sono padrona del mio corpo fisico.

Questo è solo il primo passo.
Poi, in teoria, ci sarebbe la padronanza mentale.
La quale permetterebbe una quieta osservazione della sfera emozionale.
Osservare e, nell’atto di portare alla luce, automaticamente dissolvere e/o trasmutare.
Permetterebbe inoltre di aprire gli occhi su tutta una serie di cose in modo da saper impedire danneggiamenti ed autodanneggiamenti della sottoscritta.
Parliamoci chiaro: sono tutti auto-danneggiamenti.
Niente e nessuno possono farti male più di una volta senza il tuo permesso.
(Peccato che tu non ci sei, quando è ora di fare determinazioni.
E nella confusione del momento, sul palcoscenico ci va la tua identità peggiore: quella meno adatta al caso.)
Alla seconda occasione, il male tollerato è già meritato.
E te lo sei fatto proprio tu.
Quindi? Quindi niente.

Ma non faccio prima a diventare una stronza inveterata?

Pit stop

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La temperatura si è decisamente abbassata. L’estate è andata.
Ricompaiono i soliti personaggi lungo la banchina della stazione.
I pendolari hanno già le giacchette impermeabili.
Tutti, questa notte, hanno fatto un mezzo cambio dell’armadio.
Certamente, molti, con un certo compiacimento.
Oggi è il 31 agosto per pura formalità. Sembra un fine settembre di quei settembre classici. Di quelli in cui, tra uno sguardo alla strada bagnata e uno al cielo scuro, intarsiavo piccoli entusiasmi progettuali. I propositi per il vero inizio dell’anno, che culminava in primavera e iniziava a decadere in estate.
Ho sonno. Ho bisogno di dormire.

Ho bisogno di un tot di giorni profondamente selvaggi, di barbonaggio spinto, di isolamento totale, di regole esplose, di corpo messo in condizioni di urlare le sue reali necessità.
Un periodo di abbrutimento terapeutico.
Tanto per ritualizzare il ritorno all’essenza.
Ore di sedute insensate nel silenzio profondo, ai confini del niente, tangenti quella cosa che ci spaventa e ci fa sentire diversi.
Tutti possiamo raggiungerla, tutti la neghiamo.
Negando, così facendo, la parte più reale di noi stessi.
Sono spaventata ma pronta ad affrontare il guardiano più temibile: quello che è sempre stato, apparso, palesato. Quello che ci hanno sempre detto, quello che abbiamo sempre creduto, tutte le esperienze indotte da modelli a noi precedenti che originano spaventosi interventi risanatori da parte del nostro spirito: la mente e tutti i suoi scagnozzi.
Il medium indispensabile per intesserci robustamente nella trama della coscienza comune.

Voglio un autentico ritiro.
Un mese sabbatico senza obblighi, senza orari, senza condizioni, senza parole, senza scambi con alcuni che non siano le mie sagge e silenti sfingi di pelliccia.
Poca musica. Molto silenzio. Poche auto, molto vento tra gli alberi, come nei migliori cliché. Poche voci, molto gorgoglìo di acque libere e fredde e inesorabilmente correnti.
Fare niente. Fare niente e stare.
Stare semplicemente. Non mi serve altro.
Solo così posso sperare di udire ancora la mia vera voce.
Perché c’è. Lo so che da qualche parte, sotto tutti questi infiniti rumori sovrapposti, lei c’è.

Chi se la sente di dirmi che non c’è bisogno della grotta e la pelle di leopardo per compiere questa suprema magia?

Dacci il nostro Tao quotidiano

Il mondo è un mercato.
La mente è un mercato.
Tutto si definisce in termini di cose e anti-cose.
Ovunque entra qualcosa facendone uscire un’altra.
Ovunque la destra presuppone la sinistra, l’alto presuppone il basso,
il dare precede o segue il ricevere, ecc. Solite cose, soliti esempi.
In ogni caso c’è la conservazione di un intero.
Un intero prestabilito.
Equivale a dire, dicendola con comune senso, che tutto ha un prezzo.
Entra il panino, escono 3 euro. Esce una battuta, entra una risata.
Entra uno schiaffo, esce un urlo.
Esce una pazienza, entra una speranza.
Sulle faccende non materiali, l’arte del compromesso è la soluzione – paradossalmente – più chiara e definita e forse anche saggia rispetto ad una franca predominanza sull’esterno che, volitiva e funzionalmente aggressiva, pare prevalere e vincere e che invece finisce per creare voragini di vuoto all’interno.

Lo so, non sono chiara questa volta.
Sono immagini, suggestioni appena abbozzate, appena nate.
Fa niente.
Troppo importanti però per lasciarle perdere.
Questa riflessione nasce dalla consapevolezza di un mio atteggiamento personale.
Un atteggiamento da pecora, che diventa moneta di scambio.
Quanta gente lo fa senza saperlo.

Il germe della ribellione cresce, scoppietta, si agita e contunde le mie pareti interne troppo vive e dignitose per ricoprirsi di callosità da rassegnate sconfitte.

Sarà una giornata impegnativa.

Biologia della felicità

Martedì, ore 07.40.
Scriverò. Stando attenta a non scivolare in immagini leopardiane. Ma non sarà facile: parlare di sole, di fresco mattutino, di uccellini che cantano e di silenzi che pian piano stemperano in un crescente e sommesso brulicare nelle vie deserte di una città che si risveglia, è un attimo. Intanto ve l’ho detto. Nella vita qualche cliché è necessario. Comodo, veloce e lo capiscono tutti.
Di tutti i mattini dell’anno – tutti dotati di un fascino peculiare che non sempre colgo, data la fatica mortale di alzarmi e uscire di casa a certe ore – quelli estivi sono i più belli.
Esci di casa e fai entrare tutto il fresco nella pelle con un piacere che fa quasi chiudere gli occhi. Poi dicono che la biologia non c’entra con la felicità. Il corpo vivo ed il silenzio arrestano la mente e, mai come prima, sento chiaramente di esserci. E mi accorgo che i pensieri sono una cosa che posso accantonare, relegare e destinare a più tardi.
Più tardi. Quando una serie di interazioni umane ed urbane mi faranno scendere in quel tessuto complesso e un po’ morboso del quale spesso vado anche fiera: la mia mente. Come la vedo bene ora. Che sistema magnifico. Senza di essa non sarei viva. Che tecnologia raffinata. E quante cose inutili. Che potenza. Che invadenza. Che ricchezza. Che schiavitù.
Più difficile da educare di un gatto. Più rognosa da trattare di una dieta ferrea. Più infiltrante dell’acqua in una spugna secca.
Beh, ora posso scriverlo anch’io con pieno diritto di farlo: io non sono quella roba. Questo è chiaro. Devo solo capire come individuare il momento in cui mi identifico. La porta. Il varco, attraversato il quale, mi personalizzo con tonnellate di esiti esperienziali e innumerevoli modelli costruiti in automatico nel tempo.
In potenza, sono qualunque cosa. In realtà, mi lascio essere come ho scelto quando avevo tre, quattro, dodici, quindici anni o chissà quanti anni, o come ha scelto qualcun’altro per me. Pazzesco.
A questo punto ha ancora senso sentirsi inadeguati se non si corrisponde esattamente alla maggioranza esistente?
Quando penso a questa cosa vedo con una chiarezza agghiacciante la dimensione di certi condizionamenti che vanno ben al di là di quelli familiari. Non è quel complottismo che va tanto di moda. È solo il dolorosissimo parto, ancora in corso, di un senso critico personale ed autentico che mi spela viva. Ma che prima o poi mi salverà.
Buona giornata gattoni. State freschi (se potete),