Il Baldo

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Per fortuna ci sono giorni in cui esco da me stessa e esploro con leggerezza ed una specie di allegria il mio Io più grande.
Quello vero.
Che lagna! Come sono stufa delle leziosità dilaganti! Anche e soprattutto delle mie.
Come sono stanca del ritrito e delle clonazioni selvagge!
Come è vitale il mio corpo e come lo soffoco con una mente fuori moda!
Come è vicina la primavera e come capisco che reagisco al ritmo terrestre come una qualsiasi altra bestia.

Come sono stanca di pretendere da me condizioni originate da pensieri che non sono neanche miei!
Che senso ha potenziare il motore quando ancora non si va a pieni giri con quello che c’è?
E’ qui l’inghippo, l’equivoco, l’errore.
Aprire gli occhi e richiuderli subito perché realizzi lo spreco.
Aprire gli occhi ed abituarti alla nuova luce.
Che non è mai quella del giorno prima.

Piove. Mi aspetterei la neve. Ma ad essere sincera la mancanza del gelo è un sollievo.
Comunque al mio paese nevica. Mi mandano foto che fanno vibrare la radice.
I bastoni scuri dei vigneti che inquadrano il candore. Gli alberi bianchi, le distese candide.
Pare di sentirne pure il silenzio. E mi viene in mente una vecchia foto di mio padre.
Mio padre con un berretto di lana, i pantaloni e le scarpe da lavoro, mentre spala la neve.
Poi sposto lo sguardo fuori e torno. Scelgo dove mi trovo ora. Per il momento.
Il mondo è grande e abbiamo, relativamente parlando, così poco tempo.
Sviluppiamoci in lungo e in largo.

Quando la mattina percorro i pochi chilometri che mi separano dal lavoro, alla mia sinistra posso vedere il Baldo che si specchia sulle acque del lago.

Non posso fermarmi a fotografarlo. Primo perché ci vorrebbe una vera macchina fotografica. Secondo e non ultimo in ordine di importanza, sono sempre in ritardo.
Ci manca solo che mi metta a vagare in mezzo alla statale con gli occhiali sul naso e il telefono puntato in aria, alle 8 del mattino.
In certe mattine, la punta coperta di neve del Baldo, ad Est si colora di rosa.
E’ di una bellezza incredibile.
Bianco, rosa, poi lo scuro del monte e sotto infine, il lago che, in base alla luce, ai venti e alle correnti, ogni giorno mostra un volto diverso.
Ci sono giorni di increspature straordinariamente blu. Giorni, invece, in cui è uno specchio azzurro con gigantesche chiazze in tono, lentamente cangianti.
Ma anche – e spesso in questa stagione – giorni in cui si stempera in una densa lattiginosità al punto da cancellare i confini, nascondere il massiccio ed invadere il cielo.

Il Baldo si specchia sulle acque del lago.
Visto da qui è un triangolone regolare, stabile, possente e tranquillo.
E invece è una lunga cresta, che si sviluppa verso nord (più o meno).
Un dinosauro di roccia, di cui io vedo solo un’estremità.
Il Baldo come metafora della Verità, e della verità di ognuno di noi.
E adesso ciao.

Arrendersi

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Non c’è più tempo.
Anche se c’è un sacco di tempo in ogni attimo.
Questo non mi da però il permesso di sprecarne altro.

Mentre le uova si schiudono in massa e le eccellenze si moltiplicano ad ogni angolo di strada, io che le sbaglio tutte, continuo imperterrita ad identificarmi in ogni cosa che osservo, trovo e vivo.
Mi sono arresa ormai e resto quel che sono. E’ più rilassante.
Io e le mie foto. Io e i miei giochetti del cazzo.
Trovo interessante ad esempio la storia della pigna.IMG_8113

C’è qui una piccola pigna, migrata con me durante il trasloco,
che rotola da mesi sulla terrazza come gioco per gatti e che, dopo almeno tre anni di forma fissa, di morte apparente, inaspettatamente si è chiusa sotto una notte di abbondante pioggia. Per riaprirsi, poi, alla prima secca atmosferica. Tornata come nuova.
So bene che è un fatto plausibile, normale, ma averlo notato fa la differenza.

A volte l’immobilità non è morte ma letargia salvifica.
Uno stare con quello che c’è nell’unico modo in cui ci si può stare.

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Appena sotto le stelle (wake up, get up and go on)

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A chi guarda dalle nuvole sembrerà tutto molto chiaro.

Lo faccio spesso.
Osservo la linea del mio tempo dall’alto.
Ci provo, dico.
Non è mica facile: la memoria è viziata da sentimenti resistenti.
Belli e brutti. Confusi e limpidi. Vecchi e attuali.
La cosa che voglio evitare è che il pretesto del vivere il Qui&Ora, tanto fondamentale quanto unico paradigma di una buona esistenza, mi chiuda gli occhi sulla vera natura delle cose.
Che ci giunge più fedele se non ne dimentichiamo le radici, i percorsi fatti, le scelte seguite. E soprattutto non chiudiamo gli occhi di fronte ai piccoli particolari, alcune lievi sfumature, a torto considerati poco importanti, che fanno invece la differenza.
Poi, è chiaro, si va avanti con ciò che c’è ora.
Anche perché non serve altro. Ora.
E ciò che c’è, ora, è una bella mappa chiara e perfettamente leggibile.

La mappa non è il territorio.
Ma quando sei perso aiuta eccome.

Ed è bastato alzarsi e guardare tutto l’insieme, dall’alto di una stanchezza di cui sono stufa e che impone un maggior rispetto di se stessi e degli altri.

Il bianco soffice delle nubi si frammenta, lentamente si dirada.
Infine termina. Improvvisamente.
Una linea irregolare ed obliqua scopre di colpo il blu del mare.
E poco più sotto, un primo frammento di un colore primitivo, amato ed emozionante: terra.
Così succede, guardando dal finestrino dell’aereo.
Poi bellissime geometrie di verdi, ocra e marroni. Di varie tonalità e di tutte le forme.
E di notte, una rete di luci che si addensano. E poi si stemperano a piccoli punti nel buio del suolo che dorme.
E poi ancora, se l’ora e la zona lo consentono, alzare lo sguardo all’orizzonte e scorgere l’abbraccio tra la notte e il giorno. E accorgersi.
Accorgersi del senso e della natura del tempo. Comprendere profondamente che possiamo – dobbiamo – rifare tutto.
Perché ancora un solo minuto in questo spreco di spazi, di risorse, di parole, di attenzione e di tempo stesso, è un insulto alla Vita.
Wake up, get up and go on.

Salpare senza bussola

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Ci sono giorni inqualificabili.
Pare non succeda niente e invece no.
Osservi, leggi, pensi cose che hai ritenuto vere per lungo tempo e improvvisamente ti senti in mezzo alla fiera delle banalità, al discount dello scontato (figurati se non faccio un giochetto di parole), al mercato del wannabe.
Percepisci la noia del solito, dell’abitudine, la tigna della regola limitante ed obsoleta.

Resta solo da appurare – fosse poco – se hai cambiato la rétina come la biscia cambia la pelle, o se invece ti stai difendendo con le più audaci scenografie mentali mai inventate.
Lo scopriremo solo vivendo.

La tentazione di concepire frasi ad effetto da estrapolare per fare audience sui social ha la forza di un budino.
Non mi riconosco più.
Il sentire si trasforma. E nulla è più come prima.

Chi si muove spesso si ferisce, sanguina, si arena. Si rianima, poi, in qualche modo, e ricompone la cifra cambiando rapporti, proporzioni e segni.
Normalmente il totale ha un valore maggiore rispetto al precedente.
E si riparte.
Ma bisogna abituarsi.
Pian piano.

Pian piano si fa tutto.

Arriva il momento in cui molli tutto e scegli la deriva, scoprendo che non è affatto spaventosa. Anzi.
È Potenza pura.
Nonostante spiacevoli residui ed ostinate resistenze.
Magari se lasci fare, trovi la corrente giusta.

Queste parole arrivano direttamente da una languida fase di pre-sonno.
Fosse questa la dimensione della vera realtà?

Se vi dico buonanotte, è banale?
No.
Fate una buona notte.

Spiegami perché non dormo

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Spiegami perché non dormo.
Sembra una sera d’estate.

Stavo per addormentarmi in macchina.
Spiegami perché, adesso, non dormo.

Sembra la vigilia di un grande avvenimento.
Una grande partenza.
Un esame, un nuovo lavoro,
un importante funerale o l’attesa di un parto.
Perché cazzo non dormo, ora.

Sono stanca di anni intensi! E di mesi tesi.
E adesso?
Adesso non dormo.

Grilli, uccellini notturni. Un buio delicato.

Ci riprovo.
Buonanotte gattacci.

Uccellini

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È il titolo di una raccolta di racconti erotici della mia amata Anaïs Nin.
Ma è anche la mia nuova passione ‘animale’.

Comunque mi esprima, dire questo senza cadere nel gergo popolare in cui questi animaletti fanno la parte del pisello (scelgo la versione vegetale, per farmi capire) è praticamente impossibile.
Immaginate dire “ultimamente mi sto appassionando agli uccelli?”.
Se mi va bene, potrebbero rispondermi “e fino ad ora, cosa facevi?”.
Non è il caso di continuare.

Trovo che siano delle creature meravigliose e non so perché non me ne sono accorta prima.
La sensibilizzazione alla bellezza di questi piccoli cuori che salpano il cielo, ho pensato recentemente, è iniziata con un sogno.
Un sogno strano, in cui c’erano un sacco di uccellini con le ali doppie.
Lasciamo stare cosa possano significare. Non saprei. Anzi se qualcuno ha qualche idea, libero di aiutarmi a capire.

Qui dove vivo ora c’è ne sono moltissimi.
Mi affascina, probabilmente, la loro abilità di vivere nell’unico elemento di natura con cui non ho confidenza.
La più impalpabile delle materie, che mi appare come un immenso contenitore di tutto ciò che ancora non conosco.
La controparte fisica di quel regno in cui sono presenti tutte le cose che accadono e che a me non sono ancora accadute o di cui non mi accorgo.

Mi affascina la loro piccola dimensione, la loro apparente delicatezza. Una forma piumata, affusolata e palpitante, che si esprime in velocissimi movimenti, come se il tempo per loro si svolgesse ad una velocità diversa. Ed è così.
Come se vivessero in un ologramma del mondo miniaturizzato, in un’onda vibratoria ad alta frequenza, tra le onde vibratorie di tutto ciò che c’è.

Mi affascina il loro canto senza il quale il mondo fuori dalla finestra, sembrerebbe morto.

Mi rassicura vederli volare in lontananza, stagliati nell’azzurro o nel bianco lattiginoso delle nuvole.
Mi incantano gli stormi, forme collettive che rivelano un’intelligenza superiore e una sincronia armonica che segue leggi invisibili, ma per questo non reali, di Natura.
Manifestazione fisica di qualcosa di decisamente superiore.

E allora cosa siamo noi!

Oggi sono romantica da diabete.

Verde negativo

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Ok. Va bene. Ho fatto una stronzata.
Beh? Voi non sbagliate mai?
Che poi non è del tutto così, ma tra poco ve la spiego.

Insomma, anche se alcune persone che mi conoscono non la pensano così, in questi mesi sono decisamente uscita dalla mia zona comfort, come si dice negli ambienti di crescita personale. Che peraltro, ormai, mi hanno sfrangiato minuziosamente le ovaie.
Perché più che crescere, dietro a tutte quelle belle parole, io sono caduta.
Attenzione non sto parlando del trasloco.
In se, quella è stata una delle mosse più utili che mi sia mai capitato di fare.
Parlo di tutto ciò che lo spostamento ha comportato e anche di tutto ciò che ha comportato lo spostamento.
Se la mia esposizione si avvale di questi giochetti di parole, se non sono semplice e lineare (quando mai), se sono didascalica e pesante, pazienza.
Ci sono altri blog meravigliosi in giro per la rete.
Questo è il mio diario e siamo al giorno 349 dall’ictus psicologico e al giorno 216 dall’inizio dei suoi esiti. E io voglio scrivere.

In attesa che prenda il coraggio di abbandonare definitivamente questo blog per aprirne un altro, esattamente come vorrei aprire un altro capitolo del mio divenire, faccio ancora qualche rantolo qui sopra. Intanto qualcuno mi aiuti a trovare un titolo decente per quello nuovo.

In questi giorni ho compreso profondamente perché alcune persone si danno all’alcool, al Prozac, allo shopping compulsivo – che gradirei parecchio ma che non è, al momento, alla mia portata – alla droga, o alla svendita sentimentale e sessuale.
Con tutte le esistenti vie di fuga dalla realtà percepita come avversa, io non riesco a prenderne nemmeno una.
Allora ho pensato di fare la parte dell’eremita.
Che oltre a starmi malissimo, mi fa anche malissimo.
Però mi da il tempo per ristrutturare cose piuttosto importanti.
Tra queste, la scala dei valori e quindi delle priorità.
Al vertice dei valori, nonostante il fallimento che sento di vivere, lascio la Fides: su questa non mollo. Chi non la capisce per il verso giusto, si prenda un libro sull’antica Roma, che io sento cos’è ma non ve la so spiegare.

Dopo il rimpasto della classifica, il compito più importante e più sensato è quello di strapparmi di dosso tutto ciò che non è mio e vedere un po’ cosa rimane.
E’ una cosa difficilissima!
Per fare questo ci vuole silenzio.
Silenzio e faccia da culo.
E riguardo a quest’ultima, come è già noto invece per quanto riguarda il silenzio, nonostante le apparenze, faccio molta fatica.

Come una goccia d’olio motore in una pozzanghera, le conseguenze della mia genialata si sono espanse velocemente a 360 gradi, impestando tutta la mia superficie che si è ritrovata a riflettere tutto lo spettro della luce visibile e non.
Con netta predominanza del cosiddetto verde negativo.
Per sapere cos’è, fare ricerchina su google e scoprire che in radioestesia e altre simili pseudometapsicoscienze, rappresenta la frequenza mummificante contenuta nella piramide di Cheope che restringe, solidifica, affila, riduce. Un Satvrnvs delle frequenze. Che poi anche Saturno stesso, in effetti, ora….. Ma non credo vi interessi l’astrologia.
E forse nemmeno il processo di mummificazione.
Si vede che non siete egizi nemmeno un po’!

Di tutte le restrizioni subite (o scelte, decida di chi sta leggendo, a seconda del suo credo o della sua filosofia di vita) l’unica che mi sta particolarmente bene è quella del peso.
Il resto, anche no.

Date le mie recenti nuove abitudini, ho già scritto troppo.
Anzi, ho persino esagerato.
Attendo suggerimenti per il nome del nuovo blog.

Però che bello. Sono le 21. Sono sulla terrazza. Non è ancora proprio buio.
Non fa nemmeno freddo.
E c’è un cielo di un bello che ha senso esserci solo per guardarlo.
Ciao gattacci.

Frasario

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Due violente febbri in due mesi valgono più di mille parole.

Ogni scelta è un bivio. Andare in una direzione piuttosto che in un’altra mostra il ramo in cui andrai a fiorire. O a cadere.

Mi manca la famiglia come ogni volta in cui sto male. Pensare che quando mia madre telefonava per dirmi che sarebbe passata da me a portarmi qualcosa le dicevo di no, che me la sarei cavata. Cose di ordinario karma.
So che stai ridendo. O almeno, lo spero.

Tra tutti i colori che potevano mancarmi, proprio il bianco. Scrivo sulla lista della spesa ‘acrilico bianco’. E vermiglione, anche.

Ho disegnato un cuore. Ma il rosso è sullo sfondo. Come a dire che le quattro camere potrebbero anche essere vuote. Oppure che, invece, funziona benissimo e lo spazio circostante ne è totalmente interessato. E nutrito.

Scegliere il deserto ha un senso.
Se si è svegli e consapevoli.

Il senso di colpa è un cane che morde i polpacci. O una debolezza che tira giù lo sterno.

C’è il pentimento infuocato di non aver saputo fare, accorgersi ed essere.

I gatti sono intelligenti e generosi.
Si prendono cura di me.

Esistono misteri insondabili. Inutile razionalizzare all’inverosimile o cimentarsi in una magia che ancora non ci appartiene.

L’utero è l’ultimo organo a dissolversi. Perché suo compito è proteggere la vita.

Fernando Pessoa, con il suo Libro dell’Inquietudine, è solo arrivato prima. Ma scriveva comunque meglio. Naturalmente.

Ci sono pensieri passerotti, pensieri gazza, pensieri corvi. Rarissimi pensieri aquila.
Ci sono ragnatele da rompere con un rametto di nocciolo.

Le impressioni della mente non sono reali. Reale è il gatto che lecca l’orecchio all’altro, il tasso di umidità dell’aria, la mia carne che si muove, respira, memorizza e rilascia informazioni al resto del mondo.

Questa casa mi piace. So che la lascerò. Al momento è l’ideale. Rimbalzo più facilmente in un ambiente stretto. Il processo è più veloce anche se non proprio gradevole.

C’è abbondanza ovunque. Spesso non riesco ad uscire dalla mia visione ristretta e lo dimentico.
L’aver aumentato, con azioni avventate e illusorie, la sensazione di mancato agio, mi soffoca.
‘Qui dentro’ c’è tutto quel che mi serve.

La febbre sta diminuendo. Non posso appellarmi ad essa per le qui presenti illustrazioni del mio pensiero. Che ha cominciato a stufarmi.