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Cinquecento anni per niente
Nel guardarmi intorno alla ricerca di una immaginaria forma di salvezza,
capita che mi rotoli insensatamente dallo stipite della porta alla parete
e finisca con la testa appoggiata ad una foto appesa.
E dopo pochi secondi, nonostante le condizioni vergognose in cui verso,
riesco a farmi venire in mente che resterà il segno della fronte sul vetro.
Allora mi stacco, sgancio la cornice dal muro, la porto in cucina e già che ci sono
le do una pulita. Che non vede da mesi, credo.
Del resto avere la canna del fucile imbracciato da mio padre puntata esattamente sulla fronte, non è bello.
Quanti anni potevano avere? Non erano ancora sposati.
Di lui si evince una certa prestanza e quel senso di gioco, quel gusto del divertimento pulito che ha sempre avuto. Di lei un straordinario mix di grinta e timidezza.
E io che cazzo di mix sono?
Esce sempre un pezzo nuovo, anche in questo periodo in cui ho già compiuto cinquecento anni.
Avrei voluto, stasera, incontrarmi nella stanza in cui di anni ne ho 9 o 10, ma onestamente sono stanca. Sono scene penose anche se il pubblico sono solo io.
La sera mi è pesante.
E poi qualcuno o qualcosa, ad un certo punto, ha fatto partire il cane di quel fucile da baracconi. Un proiettile al giorno.
E tutti i fori, in realtà già presenti da secoli, sono stati scoperti dal botto, sotto quella che sembrava una membrana integra. E che invece era solo il vestito che mi hanno messo. Talmente vecchio e consunto che qualche foro d’entrata già si intravedeva. Obsoleto.
Cambiare.
Più che proiettili, direi frecce.
Che se le togli con calma tu, te la cavi.
Quelle che invece ‘Ti Aiutano’, c’è ancora la punta dentro: prima o dopo finisci sempre per arrangiarti.
Si chiama: Fare Pulizia.
E in certi momenti di follia le frecce che hai tolto ti mancano e te ne vai a cercare di nuove in base a quella legge del cazzo per la quale, come becere cavie, ricalchiamo il percorso di minima resistenza, solo perché è già un solco bello largo profondo e lo conosciamo già.
Dicono che i genitori ce li scegliamo.
Di sicuro li avevo già adocchiati quel giorno lì, nella bruma pomeridiana di un fine novembre degli anni 60. Erano belli carini.
Oggi sono intrappolati in una manciata di pixel, in un’illusione ottica generata da codici binari e uno spruzzo di elettricità. O in un pezzo di carta cosparsa di polimeri e polvere di carbone, che ospita tra se e una lastra di vetro, pulviscolo inerte, acari morti e una quantità incredibile di domande a cui non è mai stata data risposta.
Nelle mie memorie, essi stanno sbiadendo: non si prestano più ai giochetti della mia mente. Continuano a fare – si fa per dire – la loro vita.
Mi mancano comunque.
“Non importa quello che ci hanno fatto. Importa quello che noi facciamo con quello che ci hanno fatto”.
Genitori, nonni, cugini, zii, zie, insegnanti, compagni di scuola, amori, preti, suore, amici tossici, amici della ‘bene’, falsi amici, veri amici, colleghi, sconosciuti, avventurieri, errori passati, atti incompresi.
Non devo niente a nessuno.
Decisioni, rappresaglie, spiegazioni, domande, risposte, atti, impegni, aperture, cautele, omissioni, aggressioni, rimproveri, ammissioni, filtraggi, dolori, doni, confessioni, giustificazioni, timori ed egoistiche gioie profonde.
Abbandonato sospiro.
Detesto questa sensazione di censura che mi attanaglia la mano.
Buonanotte.
Cose fondamentali
I tuoi occhi.
Le tue mani.
I tuoi capelli. Inconfondibili.
I tuoi lavori.
Il tuo genio.
I tuoi valori.
Il tuo senso di giustizia.
La tua leggerezza.
La tua debolezza.
Le tue parole così giuste.
La nostra incapacità di dialogare.
La tua attenzione.
La tua gentilezza.
Le tue paure.
Il nostro tardivo amore.
La tua dignitosa scelta.
Non l’avrei mai detto,
mi manchi.
I sacchi neri
Domenica.
Nei sacchi neri ci abbiamo messo le spoglie di una passata presenza.
Gli accessori di un passaggio in questa realtà, stipati da quasi un anno in un armadio semplice, di legno liscio, nell’attesa che venisse il tempo.
Nei sacchi neri buttiamo l’obsolescenza annidata nella nostra mente.
Facciamo praticamente un rituale, elementare e solenne, con le ciabatte ai piedi e le tende aperte.
Naturalmente, in una giornata di sole.
Con la porta spalancata su latrati lontani, su gatti appollaiati con occhi socchiusi e campane domenicali che mi entrano nel midollo.
Dai sacchi neri si sono liberati ricordi teneri e anche un po’ ridicoli di una infanzia condivisa e ricordata a pezzi. Che sussulta appena, tra le nostre parole e le nostre risate, prima di ripiegarsi per sempre all’interno di una storia compiuta. Che resterà da oggi, indisturbata, distesa a strati nelle fondamenta. Sempre presente, ma lontana dal frenetico quotidiano.
Dai sacchi neri sono evasi i pomeriggi al torrente, imprigionati nelle fibre di una maglietta a righe, insieme a quel sole pazzesco, quella luce che faceva strizzare gli occhi.
È uscita quella cancellata bianca e le mani di papà, mai sporche, mai rovinate. Sono usciti lavoretti in legno, salse di pomodoro fatte in casa, frutta raccolta, terra zappata, frittate con l’erba amara e poi tetti, pavimenti e odore di calce e cemento.
Tra i sacchi neri ho fregiato mio fratello del titolo di Ragionevole Concreto. Meritevole di avermi impedito di tenere un passamontagna giurassico verde militare, un giaccone delle ferrovie e un paio di calzerotti fatti a mano, numero 43.
I sacchi neri sono un pettine che scioglie nodi.
Sono un’essenza odorosa che scivola sulla pelle, che subito brucia ma che poi mette in bolla i ricordi.
Bonne nuit.