Appena sotto le stelle (wake up, get up and go on)

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A chi guarda dalle nuvole sembrerà tutto molto chiaro.

Lo faccio spesso.
Osservo la linea del mio tempo dall’alto.
Ci provo, dico.
Non è mica facile: la memoria è viziata da sentimenti resistenti.
Belli e brutti. Confusi e limpidi. Vecchi e attuali.
La cosa che voglio evitare è che il pretesto del vivere il Qui&Ora, tanto fondamentale quanto unico paradigma di una buona esistenza, mi chiuda gli occhi sulla vera natura delle cose.
Che ci giunge più fedele se non ne dimentichiamo le radici, i percorsi fatti, le scelte seguite. E soprattutto non chiudiamo gli occhi di fronte ai piccoli particolari, alcune lievi sfumature, a torto considerati poco importanti, che fanno invece la differenza.
Poi, è chiaro, si va avanti con ciò che c’è ora.
Anche perché non serve altro. Ora.
E ciò che c’è, ora, è una bella mappa chiara e perfettamente leggibile.

La mappa non è il territorio.
Ma quando sei perso aiuta eccome.

Ed è bastato alzarsi e guardare tutto l’insieme, dall’alto di una stanchezza di cui sono stufa e che impone un maggior rispetto di se stessi e degli altri.

Il bianco soffice delle nubi si frammenta, lentamente si dirada.
Infine termina. Improvvisamente.
Una linea irregolare ed obliqua scopre di colpo il blu del mare.
E poco più sotto, un primo frammento di un colore primitivo, amato ed emozionante: terra.
Così succede, guardando dal finestrino dell’aereo.
Poi bellissime geometrie di verdi, ocra e marroni. Di varie tonalità e di tutte le forme.
E di notte, una rete di luci che si addensano. E poi si stemperano a piccoli punti nel buio del suolo che dorme.
E poi ancora, se l’ora e la zona lo consentono, alzare lo sguardo all’orizzonte e scorgere l’abbraccio tra la notte e il giorno. E accorgersi.
Accorgersi del senso e della natura del tempo. Comprendere profondamente che possiamo – dobbiamo – rifare tutto.
Perché ancora un solo minuto in questo spreco di spazi, di risorse, di parole, di attenzione e di tempo stesso, è un insulto alla Vita.
Wake up, get up and go on.

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Salpare senza bussola

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Ci sono giorni inqualificabili.
Pare non succeda niente e invece no.
Osservi, leggi, pensi cose che hai ritenuto vere per lungo tempo e improvvisamente ti senti in mezzo alla fiera delle banalità, al discount dello scontato (figurati se non faccio un giochetto di parole), al mercato del wannabe.
Percepisci la noia del solito, dell’abitudine, la tigna della regola limitante ed obsoleta.

Resta solo da appurare – fosse poco – se hai cambiato la rétina come la biscia cambia la pelle, o se invece ti stai difendendo con le più audaci scenografie mentali mai inventate.
Lo scopriremo solo vivendo.

La tentazione di concepire frasi ad effetto da estrapolare per fare audience sui social ha la forza di un budino.
Non mi riconosco più.
Il sentire si trasforma. E nulla è più come prima.

Chi si muove spesso si ferisce, sanguina, si arena. Si rianima, poi, in qualche modo, e ricompone la cifra cambiando rapporti, proporzioni e segni.
Normalmente il totale ha un valore maggiore rispetto al precedente.
E si riparte.
Ma bisogna abituarsi.
Pian piano.

Pian piano si fa tutto.

Arriva il momento in cui molli tutto e scegli la deriva, scoprendo che non è affatto spaventosa. Anzi.
È Potenza pura.
Nonostante spiacevoli residui ed ostinate resistenze.
Magari se lasci fare, trovi la corrente giusta.

Queste parole arrivano direttamente da una languida fase di pre-sonno.
Fosse questa la dimensione della vera realtà?

Se vi dico buonanotte, è banale?
No.
Fate una buona notte.

Vortex

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Il vortice non è mica ancora finito.
Siamo alla punta, al vertice.
Diecimila giri al secondo, se non di più.
A volte un incubo, a volte una figata.
Chissà quando mi sparerà fuori dove andrò a finire.

Urge un ritiro secco. Un isolamento spinto.
Per un’ulteriore accelerazione. Per un colpo di grazia.
Senza telefoni, senza gps, senza internet.
Almeno una settimana.
Possibilmente senza parlare con nessuno.
Magari in mezzo agli elementi.
Con una penna e un quaderno come salvagente.
E un pezzo di piombo per imbonirmi Saturno.
Anche se basterebbe stare a piedi nudi h24.

Potrei fingere un impegno di lavoro segretissimo.
Un sonno misterioso e lunghissimo tipo Orlando.
(Che quando mi sveglio però non ho cambiato sesso ma sono più furba.)
O un rapimento alieno con gatti al seguito.

Secondo voi posso farlo?
Secondo me Si.

Spiegami perché non dormo

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Spiegami perché non dormo.
Sembra una sera d’estate.

Stavo per addormentarmi in macchina.
Spiegami perché, adesso, non dormo.

Sembra la vigilia di un grande avvenimento.
Una grande partenza.
Un esame, un nuovo lavoro,
un importante funerale o l’attesa di un parto.
Perché cazzo non dormo, ora.

Sono stanca di anni intensi! E di mesi tesi.
E adesso?
Adesso non dormo.

Grilli, uccellini notturni. Un buio delicato.

Ci riprovo.
Buonanotte gattacci.

Qualcosa di eroico, essenziale, rude e sacro

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C’è il temporale.
Sono seduta sullo scagnetto*, appena fuori dalla grande portafinestra della cucina.
Mi fumo la sigaretta del dopocena e non penso nemmeno molto, a dire il vero.
Sento i tuoni. In un certo senso li contemplo.

Il chiarore, il rumore, l’odore dell’aria. Il profilo scuro delle case di fronte.
Il riflesso delle luci di qualche giardino sulle gocce della ringhiera.
Sento dentro cosa succede.
Succede che non ho alcun motivo per essere contenta ma sento sorgere un sommesso e crescente piacere che si diffonde.
Un senso di appagamento primitivo. Il temporale, i tuoni, lo scroscio della pioggia.
C’è un qualcosa che sa di cuccia in tutto questo.
Che non è solo il pregustare l’infilarsi a letto.
È una sede psichica primordiale. Una cuccia cosmica.
Qualcosa di eroico, essenziale, rude e sacro.
Ma anche un abbraccio selvaggio e definitivo, una comunione con tutto, una ramificazione infinita. Un senso ancestrale di casa.

Sia il fulmine la misura del mio scatto in avanti.
La differenza di potenziale che anziché bruciarmi, mi incendierà dentro rendendomi finalmente radiante.
Una stella.
Non più solo uno stupido parafulmine.

*scagnetto: sgabellino in legno.

Verde negativo

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Ok. Va bene. Ho fatto una stronzata.
Beh? Voi non sbagliate mai?
Che poi non è del tutto così, ma tra poco ve la spiego.

Insomma, anche se alcune persone che mi conoscono non la pensano così, in questi mesi sono decisamente uscita dalla mia zona comfort, come si dice negli ambienti di crescita personale. Che peraltro, ormai, mi hanno sfrangiato minuziosamente le ovaie.
Perché più che crescere, dietro a tutte quelle belle parole, io sono caduta.
Attenzione non sto parlando del trasloco.
In se, quella è stata una delle mosse più utili che mi sia mai capitato di fare.
Parlo di tutto ciò che lo spostamento ha comportato e anche di tutto ciò che ha comportato lo spostamento.
Se la mia esposizione si avvale di questi giochetti di parole, se non sono semplice e lineare (quando mai), se sono didascalica e pesante, pazienza.
Ci sono altri blog meravigliosi in giro per la rete.
Questo è il mio diario e siamo al giorno 349 dall’ictus psicologico e al giorno 216 dall’inizio dei suoi esiti. E io voglio scrivere.

In attesa che prenda il coraggio di abbandonare definitivamente questo blog per aprirne un altro, esattamente come vorrei aprire un altro capitolo del mio divenire, faccio ancora qualche rantolo qui sopra. Intanto qualcuno mi aiuti a trovare un titolo decente per quello nuovo.

In questi giorni ho compreso profondamente perché alcune persone si danno all’alcool, al Prozac, allo shopping compulsivo – che gradirei parecchio ma che non è, al momento, alla mia portata – alla droga, o alla svendita sentimentale e sessuale.
Con tutte le esistenti vie di fuga dalla realtà percepita come avversa, io non riesco a prenderne nemmeno una.
Allora ho pensato di fare la parte dell’eremita.
Che oltre a starmi malissimo, mi fa anche malissimo.
Però mi da il tempo per ristrutturare cose piuttosto importanti.
Tra queste, la scala dei valori e quindi delle priorità.
Al vertice dei valori, nonostante il fallimento che sento di vivere, lascio la Fides: su questa non mollo. Chi non la capisce per il verso giusto, si prenda un libro sull’antica Roma, che io sento cos’è ma non ve la so spiegare.

Dopo il rimpasto della classifica, il compito più importante e più sensato è quello di strapparmi di dosso tutto ciò che non è mio e vedere un po’ cosa rimane.
E’ una cosa difficilissima!
Per fare questo ci vuole silenzio.
Silenzio e faccia da culo.
E riguardo a quest’ultima, come è già noto invece per quanto riguarda il silenzio, nonostante le apparenze, faccio molta fatica.

Come una goccia d’olio motore in una pozzanghera, le conseguenze della mia genialata si sono espanse velocemente a 360 gradi, impestando tutta la mia superficie che si è ritrovata a riflettere tutto lo spettro della luce visibile e non.
Con netta predominanza del cosiddetto verde negativo.
Per sapere cos’è, fare ricerchina su google e scoprire che in radioestesia e altre simili pseudometapsicoscienze, rappresenta la frequenza mummificante contenuta nella piramide di Cheope che restringe, solidifica, affila, riduce. Un Satvrnvs delle frequenze. Che poi anche Saturno stesso, in effetti, ora….. Ma non credo vi interessi l’astrologia.
E forse nemmeno il processo di mummificazione.
Si vede che non siete egizi nemmeno un po’!

Di tutte le restrizioni subite (o scelte, decida di chi sta leggendo, a seconda del suo credo o della sua filosofia di vita) l’unica che mi sta particolarmente bene è quella del peso.
Il resto, anche no.

Date le mie recenti nuove abitudini, ho già scritto troppo.
Anzi, ho persino esagerato.
Attendo suggerimenti per il nome del nuovo blog.

Però che bello. Sono le 21. Sono sulla terrazza. Non è ancora proprio buio.
Non fa nemmeno freddo.
E c’è un cielo di un bello che ha senso esserci solo per guardarlo.
Ciao gattacci.

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Frasario

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Due violente febbri in due mesi valgono più di mille parole.

Ogni scelta è un bivio. Andare in una direzione piuttosto che in un’altra mostra il ramo in cui andrai a fiorire. O a cadere.

Mi manca la famiglia come ogni volta in cui sto male. Pensare che quando mia madre telefonava per dirmi che sarebbe passata da me a portarmi qualcosa le dicevo di no, che me la sarei cavata. Cose di ordinario karma.
So che stai ridendo. O almeno, lo spero.

Tra tutti i colori che potevano mancarmi, proprio il bianco. Scrivo sulla lista della spesa ‘acrilico bianco’. E vermiglione, anche.

Ho disegnato un cuore. Ma il rosso è sullo sfondo. Come a dire che le quattro camere potrebbero anche essere vuote. Oppure che, invece, funziona benissimo e lo spazio circostante ne è totalmente interessato. E nutrito.

Scegliere il deserto ha un senso.
Se si è svegli e consapevoli.

Il senso di colpa è un cane che morde i polpacci. O una debolezza che tira giù lo sterno.

C’è il pentimento infuocato di non aver saputo fare, accorgersi ed essere.

I gatti sono intelligenti e generosi.
Si prendono cura di me.

Esistono misteri insondabili. Inutile razionalizzare all’inverosimile o cimentarsi in una magia che ancora non ci appartiene.

L’utero è l’ultimo organo a dissolversi. Perché suo compito è proteggere la vita.

Fernando Pessoa, con il suo Libro dell’Inquietudine, è solo arrivato prima. Ma scriveva comunque meglio. Naturalmente.

Ci sono pensieri passerotti, pensieri gazza, pensieri corvi. Rarissimi pensieri aquila.
Ci sono ragnatele da rompere con un rametto di nocciolo.

Le impressioni della mente non sono reali. Reale è il gatto che lecca l’orecchio all’altro, il tasso di umidità dell’aria, la mia carne che si muove, respira, memorizza e rilascia informazioni al resto del mondo.

Questa casa mi piace. So che la lascerò. Al momento è l’ideale. Rimbalzo più facilmente in un ambiente stretto. Il processo è più veloce anche se non proprio gradevole.

C’è abbondanza ovunque. Spesso non riesco ad uscire dalla mia visione ristretta e lo dimentico.
L’aver aumentato, con azioni avventate e illusorie, la sensazione di mancato agio, mi soffoca.
‘Qui dentro’ c’è tutto quel che mi serve.

La febbre sta diminuendo. Non posso appellarmi ad essa per le qui presenti illustrazioni del mio pensiero. Che ha cominciato a stufarmi.

Alla conquista della realtà (tequila boom boom)

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Dopo l’abbuffata di spiritualità prêt à porter, naturalmente adesso ho la saturazione. Mi sento come quei bicchieri di tequila con il sale sul bordo.
Ecco, la piena si è sgonfiata, tutto si è seccato ed è rimasto quel fastidioso esito cristallino che è il mio impegno prima disperso poi condensato, infine sprecato e privato dei principi vitali.
Bere al bicchiere della vita e sputacchiare quegli inutili granuli che bruciano le labbra. Bruciano come tutti i fallimenti e gli sforzi inutili.
Adesso non esageriamo. In realtà a qualcosa tutto questo è servito.
Ma come in un buon sugo (non so se potrò mai fare a meno di metafore) che va ridotto, resta il meglio solo ed esclusivamente dopo una lunga e lenta esposizione al fuoco e dopo la perdita di ingredienti/fenomeni transitori senza i quali il piatto non sarebbe comunque riuscito.
Tutta questa marea insensata di informazioni, citazioni e patetici microatti di illusoria fede, cavalcata nella disperata ricerca di qualche punto fermo, coagulata ora nella cavità defilata delle cose già fatte, nel ritirarsi ha scoperto tutto ciò che conta: quello che c’è ADESSO.
Il senso ed il valore di quello che c’è adesso.
E, naturalmente, di riflesso, di quello che non c’è.
Che poi è sempre quello che c’è: un’assenza.
Ecco. Questo mi piace. A questo ci credo.
Anzi no, scusate, non credo ad una cippa: lo so, lo sono, lo vivo.
Quello che tocco, quello che vedo.
Quello che sento. Quello che percepisco.
Questo è il mondo.
Non c’è nient’altro.
Buon giorno di Marte, gattoni.