Appena sotto le stelle (wake up, get up and go on)

20140710-183754-67074499.jpg
A chi guarda dalle nuvole sembrerà tutto molto chiaro.

Lo faccio spesso.
Osservo la linea del mio tempo dall’alto.
Ci provo, dico.
Non è mica facile: la memoria è viziata da sentimenti resistenti.
Belli e brutti. Confusi e limpidi. Vecchi e attuali.
La cosa che voglio evitare è che il pretesto del vivere il Qui&Ora, tanto fondamentale quanto unico paradigma di una buona esistenza, mi chiuda gli occhi sulla vera natura delle cose.
Che ci giunge più fedele se non ne dimentichiamo le radici, i percorsi fatti, le scelte seguite. E soprattutto non chiudiamo gli occhi di fronte ai piccoli particolari, alcune lievi sfumature, a torto considerati poco importanti, che fanno invece la differenza.
Poi, è chiaro, si va avanti con ciò che c’è ora.
Anche perché non serve altro. Ora.
E ciò che c’è, ora, è una bella mappa chiara e perfettamente leggibile.

La mappa non è il territorio.
Ma quando sei perso aiuta eccome.

Ed è bastato alzarsi e guardare tutto l’insieme, dall’alto di una stanchezza di cui sono stufa e che impone un maggior rispetto di se stessi e degli altri.

Il bianco soffice delle nubi si frammenta, lentamente si dirada.
Infine termina. Improvvisamente.
Una linea irregolare ed obliqua scopre di colpo il blu del mare.
E poco più sotto, un primo frammento di un colore primitivo, amato ed emozionante: terra.
Così succede, guardando dal finestrino dell’aereo.
Poi bellissime geometrie di verdi, ocra e marroni. Di varie tonalità e di tutte le forme.
E di notte, una rete di luci che si addensano. E poi si stemperano a piccoli punti nel buio del suolo che dorme.
E poi ancora, se l’ora e la zona lo consentono, alzare lo sguardo all’orizzonte e scorgere l’abbraccio tra la notte e il giorno. E accorgersi.
Accorgersi del senso e della natura del tempo. Comprendere profondamente che possiamo – dobbiamo – rifare tutto.
Perché ancora un solo minuto in questo spreco di spazi, di risorse, di parole, di attenzione e di tempo stesso, è un insulto alla Vita.
Wake up, get up and go on.

Qualcosa di eroico, essenziale, rude e sacro

20140512-225121.jpg
C’è il temporale.
Sono seduta sullo scagnetto*, appena fuori dalla grande portafinestra della cucina.
Mi fumo la sigaretta del dopocena e non penso nemmeno molto, a dire il vero.
Sento i tuoni. In un certo senso li contemplo.

Il chiarore, il rumore, l’odore dell’aria. Il profilo scuro delle case di fronte.
Il riflesso delle luci di qualche giardino sulle gocce della ringhiera.
Sento dentro cosa succede.
Succede che non ho alcun motivo per essere contenta ma sento sorgere un sommesso e crescente piacere che si diffonde.
Un senso di appagamento primitivo. Il temporale, i tuoni, lo scroscio della pioggia.
C’è un qualcosa che sa di cuccia in tutto questo.
Che non è solo il pregustare l’infilarsi a letto.
È una sede psichica primordiale. Una cuccia cosmica.
Qualcosa di eroico, essenziale, rude e sacro.
Ma anche un abbraccio selvaggio e definitivo, una comunione con tutto, una ramificazione infinita. Un senso ancestrale di casa.

Sia il fulmine la misura del mio scatto in avanti.
La differenza di potenziale che anziché bruciarmi, mi incendierà dentro rendendomi finalmente radiante.
Una stella.
Non più solo uno stupido parafulmine.

*scagnetto: sgabellino in legno.

Uccellini

image
È il titolo di una raccolta di racconti erotici della mia amata Anaïs Nin.
Ma è anche la mia nuova passione ‘animale’.

Comunque mi esprima, dire questo senza cadere nel gergo popolare in cui questi animaletti fanno la parte del pisello (scelgo la versione vegetale, per farmi capire) è praticamente impossibile.
Immaginate dire “ultimamente mi sto appassionando agli uccelli?”.
Se mi va bene, potrebbero rispondermi “e fino ad ora, cosa facevi?”.
Non è il caso di continuare.

Trovo che siano delle creature meravigliose e non so perché non me ne sono accorta prima.
La sensibilizzazione alla bellezza di questi piccoli cuori che salpano il cielo, ho pensato recentemente, è iniziata con un sogno.
Un sogno strano, in cui c’erano un sacco di uccellini con le ali doppie.
Lasciamo stare cosa possano significare. Non saprei. Anzi se qualcuno ha qualche idea, libero di aiutarmi a capire.

Qui dove vivo ora c’è ne sono moltissimi.
Mi affascina, probabilmente, la loro abilità di vivere nell’unico elemento di natura con cui non ho confidenza.
La più impalpabile delle materie, che mi appare come un immenso contenitore di tutto ciò che ancora non conosco.
La controparte fisica di quel regno in cui sono presenti tutte le cose che accadono e che a me non sono ancora accadute o di cui non mi accorgo.

Mi affascina la loro piccola dimensione, la loro apparente delicatezza. Una forma piumata, affusolata e palpitante, che si esprime in velocissimi movimenti, come se il tempo per loro si svolgesse ad una velocità diversa. Ed è così.
Come se vivessero in un ologramma del mondo miniaturizzato, in un’onda vibratoria ad alta frequenza, tra le onde vibratorie di tutto ciò che c’è.

Mi affascina il loro canto senza il quale il mondo fuori dalla finestra, sembrerebbe morto.

Mi rassicura vederli volare in lontananza, stagliati nell’azzurro o nel bianco lattiginoso delle nuvole.
Mi incantano gli stormi, forme collettive che rivelano un’intelligenza superiore e una sincronia armonica che segue leggi invisibili, ma per questo non reali, di Natura.
Manifestazione fisica di qualcosa di decisamente superiore.

E allora cosa siamo noi!

Oggi sono romantica da diabete.

Alla conquista della realtà (tequila boom boom)

20140204-145948.jpg
Dopo l’abbuffata di spiritualità prêt à porter, naturalmente adesso ho la saturazione. Mi sento come quei bicchieri di tequila con il sale sul bordo.
Ecco, la piena si è sgonfiata, tutto si è seccato ed è rimasto quel fastidioso esito cristallino che è il mio impegno prima disperso poi condensato, infine sprecato e privato dei principi vitali.
Bere al bicchiere della vita e sputacchiare quegli inutili granuli che bruciano le labbra. Bruciano come tutti i fallimenti e gli sforzi inutili.
Adesso non esageriamo. In realtà a qualcosa tutto questo è servito.
Ma come in un buon sugo (non so se potrò mai fare a meno di metafore) che va ridotto, resta il meglio solo ed esclusivamente dopo una lunga e lenta esposizione al fuoco e dopo la perdita di ingredienti/fenomeni transitori senza i quali il piatto non sarebbe comunque riuscito.
Tutta questa marea insensata di informazioni, citazioni e patetici microatti di illusoria fede, cavalcata nella disperata ricerca di qualche punto fermo, coagulata ora nella cavità defilata delle cose già fatte, nel ritirarsi ha scoperto tutto ciò che conta: quello che c’è ADESSO.
Il senso ed il valore di quello che c’è adesso.
E, naturalmente, di riflesso, di quello che non c’è.
Che poi è sempre quello che c’è: un’assenza.
Ecco. Questo mi piace. A questo ci credo.
Anzi no, scusate, non credo ad una cippa: lo so, lo sono, lo vivo.
Quello che tocco, quello che vedo.
Quello che sento. Quello che percepisco.
Questo è il mondo.
Non c’è nient’altro.
Buon giorno di Marte, gattoni.

Aver da scrivere in una sala d’attesa

20130709-154425.jpg
Sto aspettando per fare l’ecografia alla caviglia. Seduta vicino a me c’è una donna sulla sessantina e ancora più in là, accanto a lei, sua madre. Un donnino di 90 anni. Uno scricciolo con le mani grandi, lo sguardo sveglio e un’espressione un poco sofferente.
Quando vedo persone così, mi viene in mente lei.

Mi sono chiesta – mi chiedo sempre – come sarebbe stata lei a novant’anni.
Ma anche a ottanta, non importa.
Come si sarebbe contratta ed intensificata in un solo punto la sua grande forza, trasferendosi in una zona remota all’interno di lei, ancora più intima e prossima al cielo.
Come si sarebbero trasformati i suoi lineamenti. Come si sarebbe reticolato ulteriormente il suo viso, con le incisioni del suo produttivo e talvolta forsennato pensare.
Come si sarebbe valorizzata quella luce bambina e intelligente e brillante che scaturiva dai suoi occhi.

Sei anni fa, in questo stesso ambulatorio, da sola, lei ha incontrato se stessa.
Da quel giorno è rimasta sempre sola. Anche in mezzo agli altri.
Tra la generosa dissimulazione e la caparbia volontà di combattere e di continuare a mantenere il suo ruolo di nutrice, lei iniziava in quel momento a salire la sua montagna. Da sola. Avevo la sensazione che per la prima volta in vita sua avesse iniziato a farsi precise domande, avesse deciso finalmente di valutare l’ipotesi di esistere per davvero. Avesse finalmente deciso di conoscersi. Troppo tardi si. Ma anche no, se vogliamo fare gli spirituali per forza.
Umanamente parlando, comunque, troppo tardi.
Non l’ho mai vista vecchia insomma. Nemmeno quando la sembrava.

Io ho seri dubbi sull’esistenza, di chi qui non c’è, più in quelle dimensioni che chiamiamo popolarmente aldilà (del Velo). Anzi, lo credo possibile, ma sono tristemente convinta che ‘chi’ abbiamo conosciuto, di fatto non esiste più. Ciò che resiste è spersonalizzato. E tutti i dialoghi fantastici che intraprendiamo mentalmente con i nostri cari e meno cari non sono altro che un aggiustamento romanzato con frammenti di nostre memorie. Stop.
Comunque, se mai fosse possibile, la rivorrei qui per un attimo.
Oggi come oggi non vorrei nemmeno dirle nulla (sono cresciuta!).
Ma vorrei poter vedere il suo sguardo per percepire di nuovo un’antica luce che conosco e che è casa.
Una luce che posso trovare anche in pochi altri qui, a mia disposizione. Non senza l’immane fatica di penetrare in giungle inesplorate prima di scorgere un minimo scintillio.

Comunque, ho una tendinite post-traumatica.
Vi interessava?

Video-Film Of Lady In All Star

20130612-191601.jpg
Non sono una filmmaker.
Ma so cosa ci vuole per fare un video di qualità: la vita ordinaria e un iPod.
So di averlo già scritto da qualche parte. Ma non fa niente.
Basta essere in stazione la mattina, con gli auricolari inseriti e funzionanti, aspettare che sia aprano le porte del regionale per Sestri Levante e guardare la gente che scende. E ne scende tanta.
Guardare come fosse la prima volta. (Come fossi appena sveglia, a dirla tutta.)
Focalizzare l’attenzione sui passeggeri di età, o quelli con aria prettamente borghese, sui loro abiti, le borse, gli atteggiamenti, le loro espressioni, ascoltando Piranha (The Prodigy) ad un volume di tutto rispetto, mentre il raggio di sole, selezionato dallo spazio tra la tettoia e il convoglio, ti trafigge l’occhio destro confondendo gli emisferi e inondandoti di gioia inattesa.
Un altro pezzo ben riuscito é stato quello di una sera mentre stazionavo con aria indifferente vicino ad un gruppo di ragazzotti pseudo-punkabbestia, pieni di oggettini di metallo che spuntavano da ogni possibile curva di carne. Allora era il finale di ignoto pezzo di Mozart (non posso mica sapere tutto). E subito dopo Lemon Tree*. Il treno aveva tipo mezz’ora di ritardo. Dall’aspetto truce ed incerto dei ragazzacci, si levavano impalpabili ed inattese aure romantiche.
Un’attesa sgradita ti diventa un film indimenticabile.

L’effetto contraddizione é il più affascinante, ma non può essere applicato a tutti e ad ogni circostanza: in alcuni casi, come davanti al ferroviere con barba corta accuratamente arabescata a foggia tribale – tipo graffio di gatto – in entrambe le guance e capelli pietrificati dal gel, non può starci altro che L’Italiano di Toto Cutugno. Che nel mio iPod non entrerà mai. E non ce l’ho con gli italiani.
La musica a sbalzo, l’effetto Marie Antoinette versione Sofia sulla propria immagine, bisogna meritarsela.
E per meritarsela bisogna avere stile.
E la signora ultrasettantenne di stamattina, inconsapevole protagonista del videoclip di Strict Machine**, quel donnino dall’espressione semplice e di chi é in pace con se stesso, con piccola Louis vintage, strangolino in seta celeste, capelli grigi a caschetto, tailleur antracite con pantalone alla caviglia, All Star grigie e spocchiosa figlia al seguito, di stile ne aveva da vendere.

A me piace giocare.
Forza, che arriva l’estate.

*Herp Albert, versione di Thievery Corporation
**We Are Glitter Mix, Goldfrapp

si puo fare

Crescere

20130419-165225.jpg

Diventare adulti è un traguardo arduo che spesso viene frainteso.
Non c’entra la famiglia, non c’entra l’età, non c’entrano certi traguardi (mentre ne c’entrano altri).
Il bisogno di essere accuditi, che ci cambino il pannolino quando la cacca brucia, che ci diano subito l’acqua quando abbiamo sete, che ci dicano che abbiamo fatto bene, che abbiamo fatto giusto.
Così come stizza sul fatto che nessuno riesca e/o possa partecipare i tuoi sentimenti e i tuoi movimenti così come vorresti – perché ognuno di noi ha il libretto di istruzioni diverso da quello degli altri -, che tu debba fondamentalmente arrangiarti e che l’unica gonna a cui tu possa attaccarti é la tua… (E spera che non sia larga.)
Ad un certo punto della vita, rendersi conto di tutto questo con estremo disappunto se non addirittura con sgomento, indica chiaramente che si deve ancora crescere.
La mamma non c’è, il gatto non capisce (anzi tu non capisci lui), il partner, se c’è, ti guarda come guarderebbe un’iguana in smoking che prende la metropolitana.
Mentre tu piangi, tu urli, tu non sai più con chi prendertela, tu non capisci, tu ti senti arrotata da tondi macigni di pietra focaia sulle pareti di un vortice senza fine, tu cerchi un maledetto gancio. Se c’è, meglio una maniglia.

Ci sono giorni, argomenti, scelte, dilemmi che vorremmo tanto non affrontare da soli come un palo in mezzo ad una rotonda stradale.
Mettiamo in dubbio il valore della nostra cognizione e non reggiamo l’ariosa ma altrettanto temibile responsabilità di noi stessi.
Vogliamo compagnia. Sguardi che accolgono. Mani che accompagnano. Fusioni calde in cui riporci. Grembi post materni.
E invece no. Ti stagli sull’orizzonte della tua vita, monolite sbilenco in una sterminata distesa di silenzio, e chi s’è visto s’è visto.
Anche se da te diluviava e lo sapevano tutti.
L’indomani, come se niente fosse.
Irrobustisci le fondamenta, rinforzi i varchi e ridi quando pretendono di entrare nelle tue cantine. Tra te e te, ovvio, mentre mostri loro un’entrata farlocca.
Depistaggi necessari alla conservazione di un minimo di identità.
C’è da dire che a parte la scomodità, scegliere da soli per se stessi, che dovrebbe essere la via naturale ed ovvia, a lungo termine da i migliori frutti.
E costringe, a pensarci bene, ad onorare la propria esistenza
Comunque, sto bene. Ciao.

P.S.: il post ha più di una settimana, ma la tecnologia mi é stata avversa. Miao

Thanksgiving Day

IMG_0566

Non voglio continuare con il seguito del Tredici.
Anche se proprio oggi leggevo il capitolo di un libro che sta a me come l’acqua sta a un disidratato, in cui c’è, ben descritta, la riflessione con cui mi aiuto quando cado nell’inerzia più pastosa che c’è.
Ma non la scrivo se non su richiesta, altrimenti questo diventa un blog da venerdì santo, con conseguente cupo rannuvolamento delle coscienze.

E se non vogliamo vogliamo parlare del Varco, parliamo di ciò che, grazie ad esso, ha un senso.
C’è in me – e oggi è ai massimi livelli – una forma di gratitudine che nella norma dimentico ma che pronta sorge non appena mi radico con l’attenzione nel corpo.
Non mi interessa se i miei pensieri si snodano su immagini “povere” o ridicole. Quel che conta è che rivelino il mio “grazie” di fondo a qualunque cosa o ente mi permetta di essere una qualsivoglia forma di coscienza.
Di esistere, in sostanza.
Capita spesso, quando non sono tutta raggomitolata nella testa, di mettere attenzione sulle mie gambe. Quando cammino, naturalmente. E io cammino tanto.
Ogni volta, e mai mi stanco, percepisco il loro movimento con un certo piacere fisico. Quasi un compiacimento carnale.
Ammiro la loro perfezione.
Penso a come sono fatte le gambe (ho ottime conoscenze anatomiche), alle ossa, ai tessuti che scivolano su se stessi permettendomi il movimento. Penso ai colori dei muscoli, alla consistenza degli elastichini che tengono tutto insieme e permettono una sinergia cinetica che nemmeno il più grande ingegnere del mondo.
Penso anche che le mie gambe esteticamente non mi sono mai piaciute. Ma sono comunque MERAVIGLIOSE.
Si muovono. Che culo, direi.
Mi fanno camminare. Mi spostano nello spazio.
Direi che non è poco. GRAZIE.
Penso alle ginocchia, alle giunture. Mi rammentano le coscette (non so se si scrive con la i o senza) dei polli sotto il cellophane dei supermercati.
E allora, in quel momento, mi illumino: che differenza c’è tra la mia coscia-ginocchio-tibiaperone e la zampetta del pollo al super, a parte dimensioni, DNA e qualche osso in meno?
E allora per esclusione la sento bene, la riconosco, sboccio in un tripudio di meraviglia che pare scontata ma scontata non è.
La Vita è quello che mi distingue da una bistecca, da un pollo pronto da cucinare, da me stessa dopo che sbatterò contro il Tredici.
Nel cumulo dei quotidiani intrighi mentali, mi dimentico spesso di ringraziare per la cosa fondamentale.
E lo scrivo. Affrontando il rischio di essere banale.
Anche la scoperta dell’acqua calda, ha sempre il suo perché.
Fatevi una doccia fredda a Febbraio, sennò.

Il Silenzio del Cotone

20130128-160146.jpg

Perché ogni volta che mi avvicino alla meta mi arriva una tranvata sulla schiena?
È un segno per andare o per fermarsi?

La neve sugli alberi ai bordi dell’autostrada.
Quel bianco primordiale che se non sgomenta, rilassa.
Quel bianco aggancia ricordi, brevi spezzoni in cui mi vedo affondare gli scarponcini nella neve fresca. Attorniata appunto da grandi, antichi alberi rivestiti da una tenace guaina bianca.
E silenzio. Un grande avvolgente dolce silenzio.
Il “silenzio del cotone” lo chiamavo da piccola tra me e me, quando le mie descrizioni già prendevano la forma simbolica ed evocativa dell’immagine.

Amavo, ammiravo e un poco temevo quei vecchi signori dai rami scuri che sembravano gigantesche mani rivolte al cielo. Immobili, imperiture – eppure vitali – intente a prendere neve e chissadìo quali altre misteriose cose che scendevano dall’alto con lentezza ed ondulazioni impercettibili.
Assaggiavo sempre un po’ di neve. Poi, subito dopo il piacere di portare alla bocca quel bianco incredibile, mi veniva in mente che l’acqua delle neve non é buona perché ‘priva di sali minerali’.
Non ho mai appurato se questa cosa detta da qualche adulto nei miei paraggi corrispondesse a realtà oppure no. Fatto sta che ne facevo un primo assaggio e questo restava inesorabilmente l’unico.
La paura dell’ignoto. Il Non Si Sa Mai.
L’espressione preoccupata e la mano destra davanti alla bocca.
La mia espressione più frequente, oggi abilmente celata da una maschera di finta indifferenza.
Questa storiella del mangiare la neve la dice lunga sulla mia facilità dell’essere impressionata, proprio nel senso tecnico del termine: condizionata, plasmabile, disposta a far lasciare segni, guide, solchi su di me.

Un’altra cosa mi piaceva tanto: dopo aver fatto le classiche orme con i piedi, con le mani o con il corpo intero, entravo nel dettaglio dell’esperienza con fare pre-scientifico e schiacciavo la neve con la mano, in diverse direzioni, guardandola da vicino, accucciata a testa bassa.
Poi ne prendevo un po’ in mano, dopo essermi tolta il guanto, e la schiacciavo fortemente facendola sembrare subito una specie di piccolo ed informe ghiacciolo, per vederla, dopo pochi secondi, trasformarsi in liquido trasparente.
Cose stra-magiche.
Ammiravo il fatto che il volume della massa bianca cambiasse in modo così consistente e repentino. Era la mia prima osservazione dello spazio occulto, dei sistemi, delle griglie, degli aggregati. Era la prima presa di coscienza che – cosa meglio dell’acqua? – ogni cosa cambia nell’adattarsi alle condizioni del contesto.
Per la prima volta mi accorgevo – ma senza esserne ancora pienamente cosciente – che certe cose, in sostanza, non sono come appaiono.

Non mi piacevano i pupazzi di neve.
La neve era costretta, letteralmente, ad una forma innaturale e, alla fine, si sporcava tutta.
Io la sono stata diverse volte un pupazzo di neve.

Cosa darei per ascoltare ancora il Silenzio del Cotone.
Facendo tacere tutti questi dannati fantasmi,
tutto questo rumore di vento e di catene.

(Foto: io sul Monte Tobbio qualche anno fa.)