Fate finta di niente

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“Ciao” una cippa.
Avevate dubbi?
Non mi giustifico neanche.

[Tra le varie motivazioni della sparizione, ne citerò una sola per un fine preciso (la speranza che provochi azioni, chiamiamole, coerenti): non volevo che le mie riflessioni finissero direttamente nella casella e-mail o nel lettore WP di persone con cui ho interrotto il rapporto in malo modo: sento che è una cosa assurda, distorta e malsana.]
[Cioè, non mi blocchi su Fb e poi ti leggi le mie scemenze qui, giusto?]

Questo caldo autunno mi ha traghettata verso una specie di pace con me stessa.
Speriamo che duri. Speriamo, soprattutto, che sia vera.
Molte cose della vita mi sembrano più facili, quasi più belle, nonostante, oggettivamente, siano rimaste identiche a se stesse.
Ci pensavo stasera, mentre sentivo il freddo e la tremenda umidità del lago, stretta in un cappottino non troppo pesante, con la solida e piacevole convinzione che fosse tutto perfetto così. Anche il freddo. Anche l’umidità.

Le stagioni non corrono: scapicollano vertiginosamente, ogni giorno di più.
Questa percezione aiuta a collocare al giusto posto eventi, priorità e realtà di vario genere, perché provoca inevitabilmente un crudo e sincero faccia a faccia con la vita.
Aumenta così, in modo esponenziale, il godimento della realtà. Qualunque essa sia.
Più c’è apertura, più c’è vulnerabilità, più c’è potenziale.
Più gli abissi sono scuri, più i cieli sono azzurri.
E’ una Legge.

Tutti dovremmo indossare, il prima possibile, occhiali con lenti color Tempus Fugit.
A presto, gattacci

Ciao

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Ho avuto due blog in tutto. Questo è il secondo e l’ultimo.
Il primo ha fatto una brutta fine a causa della mia mentalità rituale del “fare fuori per cambiare dentro”: l’ho cancellato per voltare pagina.

Altri tempi, altra età. Nessun giudizio. Andava bene così.
Ora sono cresciuta (molto in età, mai abbastanza di coscienza) e sono maggiormente in grado di sostenere errori, vergogne e qualunque altra lagna che potete trovare qui sopra.
Non cancellerò il sito.
Ma cambio aria.

Non so quanto tempo passerò ancora in silenzio stampa.
In ogni caso, ci fosse qualche interessato alle mie elucubrazioni (non si sa mai) scriva l’indirizzo email nei commenti o se preferisce a gattointeriore-at-yahoo.it.
Non mancherò di comunicare l’eventuale nuovo indirizzo web.
Intanto grazie, grazie, grazie per questi 7 anni di condivisione virtuale.
Tutto finisce.
E se non finisce, necessariamente cambia.
Un abbraccio dal Gatto Interiore.

Segni

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Sul profilo personale di FB (che è ben peggio di una pagina goliardica) sono solita pubblicare i miei famigerati “ritrovamenti”, ovvero immagini di oggetti (o animali o qualunque cosa insomma) trovati in giro, per caso, ai quali affibbio un significato in linea con la convinzione che “tutto ci parla”.
Ogni cosa notata è un segno, una via, un’indicazione, un cartello sottovoce.
Molti pensano che io sia “originale” (per non dire pazza), altri mi ridacchiano addosso con sufficienza (e rigorosamente in silenzio stampa) ed altri ancora collaborano alle definizione oracolare con gran gusto e vivace partecipazione.
Un divertimento collettivo in cui ognuno finisce per manifestare il riflesso delle proprie convinzioni. Io prima di tutti.
A me piace troppo questa cosa.

Ma mica è un gioco.

Se vedo un ragno, e lo vedo di sicuro (vedi articoli passati intitolati Fobie), mica lo fotografo per forza ogni volta.
Ma se abita da settimane lo specchietto dell’auto oppure staziona immobile come un gatto di marmo al di sotto della MIA cassetta della posta, beh, per me è pacifico che ha da dirmi qualcosa.

Stasera questa bestia, che probabilmente alla prima luce del giorno entrerà a fare la bella statuina sulla mia bolletta dell’Enel, mi ha fatto venire in mente come prima cosa il proverbio popolare secondo cui “ragno, guadagno”.
Una stronzata galattica, dico io.
Sapete quanti ne ho trovati come quello? Eppure.
Che funzioni proporzionalmente alle dimensioni?
Perché, allora, i miei sogni di gloria potrebbero far apparire una tarantola gigante direttamente sul soffitto della mia camera.
Anche no.

Dopo più di due mesi di silenzio potevo anche scrivere qualcosa di più interessante.
Anche no.

ToDo

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Fare. Non pensare.

Frase scritta diligentemente nella prima pagina delle mie agende dal 2001 al 2007.
Voglio dire, come al solito, prima che una consapevolezza mi esploda nella pancia mandando schegge ovunque e – per fortuna – fin nel cervello, questa mi appare sullo schermo dell’intelletto operaio e si traduce in sequenze verbali e concettuali dalle quali sono irresistibilmente attratta.
Delle quali subisco il fascino, come di una cosa ben descritta, chiara, scintillante
e tuttavia misteriosa.
Come di un oggetto perfetto, finito e pronto di cui non si conosce l’uso.
La lenta carburazione del mio essere fa di me un’ottima teorica di corposa sapienza
a cui manca il decreto attuativo.
Un interessante programma a cui manca il file .exe. O .dmg, come vi piace.

Quello che voglio capire.
Ho paura di non essere capace?
Ho paura di essere capace?
Ho paura del fallimento?
O del successo?

Sono giornate pesanti, queste.
Ma all’aquilone del mio sorriso non si è rotta più la corda.
Ciao gatti.

Ventotto maggio

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Oh, le cose vanno meglio. Ma mica ci si può dichiarare fuori pericolo per questo.
Mi sono seduta per terra in cucina. Brutto segno.
Almeno avesse il pavimento a scacchi di quell’antico inquietante e attraente sogno.

La cosa che mi fa più schifo di me è l’ingenuità.
Alla quale non crede nessuno.
La radice di tutti i miei mali.
Mi fa schifo e mi fa male.
Detesto la creduloneria, il mio bere tutto.
La buona fede. Sempre eh, non sia mai.
E una tardiva percezione della strategia e dell’arrangiamento jazz dei dati,
che rasenta il ritardo mentale.
Il fidarmi di tutti. Uno mi dice una cosa e io ci credo.
La fiducia smisurata in tutto, nella vita, nel tempo che passa,
nel campo delle infinite possibilità.

Mia madre me lo diceva un giorno si e l’altro anche.
“Perché sei ciula” mi diceva. Oppure “sei una tonna”.
Frasi come una condanna mista a rassegnazione.
Come vorrei oggi, dopo tutti questi anni, averla qui e risentire quelle frasi profetiche.
Frasi che oggi prenderei davvero in considerazione.
Come frustate, nella speranza di aprire gli occhi sul mondo reale,
prima che film e romanzi prendano il sopravvento per sempre.

Vorrei fare un corso di furbizia. E uno di economia.
C’è un giorno maledetto di due anni fa, che festeggerò per non dimenticare.
Da lì in avanti, passi falsi. Uno dietro l’altro.

E adesso mi risiedo per terra, ok?
Tanto finirò per trovare in tutto questo qualcosa di buono.
Ma mi si permetta il rasoterra. Altrimenti non trovo la lezione.
Buonanotte.

Atlantide

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E un giorno, senza preavviso, arriva il mattino a scostare il sipario polveroso e pesante.
Il sole irrompe. Sano, forte, fastidioso come una medicina necessaria e sgradita.
Troppi giorni di sola notte, davvero troppi.
E la natura ristabilisce bruscamente ciò a cui tende: un sano equilibrio.
Notti tranquille e giorni luminosi.

Nella vertigine e nel caos che preannunciano la guarigione,
inizia già una specie di frescura all’interno.
Il respiro diventa azzurrino, leggero, ampio e frizzante.
Parti del corpo non percepite da tempo pulsano, vibrano, tornano a vita.

Si arriva a questo.
Si arriva a questo, si.
Riconquistare parti perdute.
Riscoprire continenti dimenticati.
Ritrovare l’Atlantide di sé.

Buonanotte gattacci.

L’eterno ritorno

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Ho la febbre e mi sento libera dal “dover” fare tutte quelle cose normalmente ideate o pronunciate dopo, appunto, questa odiosa parola: “devo”.
Mi ritrovo qui con una rivista in grembo, approcciata come fosse un film o un seminario sulla ricerca di se stessi.
Sono un po’ annebbiata e le associazioni mentali corrono libere e velocissime e penso che molte cose di molti anni fa, sono tornate nella mia vita alla grande.
Tutto è ritornato: la lettura delle riviste con quel senso un po’ metodico e rituale. E con quell’infantile (infantile?) abitudine di strappare le pagine con le foto di una bellezza incredibile e con gli oggetti che mi piacciono molto.
Basterebbe aprire la cartellina blu, quella dove conservo i ritagli – che ogni tanto guardo – per capire chi sono.
E’ tornata, tanto per fare insospettabili esempi l’Eau Dynamisante di Clarins, diligentemente scritta nella lista di cose da comprare “prima o poi”, la ricerca dei profumi di Serge Lutens (e li ho trovati!), il cucire un po’ ogni tanto, il mettere mano ai pennelli, l’astrologia, una maggior cura del corpo (che ha un po’ risentito di questa specie di medioevo appena trascorso) e, in definitiva, l’atteggiamento sacro generale che rende ogni cosa lo step di chissà quale percorso.
Non torno alle enciclopedie per il solo motivo che adesso ho internet.
Scrivo queste cose perché sono malata ed annoiata?
No. Questa è la parte più sana della sottoscritta.

A prima vista parrebbe un tornare indietro.
Ma io preferisco pensarla come una ripresa. Un ritorno su un’ottava più alta.
Come un altro giro sulla spirale. Uno dei più onesti, direi.
Sono sempre stata tentata di pensare di aver perso un sacco di tempo.
In realtà ritrovarsi oggi può essere solo il segno di un lavoro svolto – un enorme lavoro svolto.
Una gavetta indispensabile per radere al suolo tutto ciò che non è struttura autentica.

Scrivo moltissimo in un diario privato. Come anni fa.
Ritrovo la mia ironia, la mia scioccante e sincera profondità, le plateali ammissioni circa paure, carenze e piccole follie.
Chissà che non torni a fare un po di teatro anche qui sopra.
Per il momento pare di no.
Ciao gatti

Pensiero vago

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Tutte le paranoie scritte in questi anni, tutti i pensieri che cuociono le meningi,
tutti i dubbi quotidiani ed esistenziali, hanno una sola origine, che insolitamente sintetizzo in una sola parola: interpretazione.

L’interpretazione è naturale e funzionale.
Il vaglio dell’esperienza passata che ha creato la struttura, plasma ciò che viene percepito
e ogni uomo vede il mondo come gli conviene e, in definitiva, per ciò che egli stesso è.
E fin qui, non ci piove. Non ci ha mai piovuto. Nemmeno quando ancora non ne sapevamo nulla.

Il punto è che ad un certo momento della vita, l’interpretazione, utile fondamentalmente a conoscersi e a diventare progressivamente consapevoli di sé, va abbandonata.
E la realtà, vista per quel che è.
La realtà è tutto ciò che è, esattamente per quel che è.

C’è un livello interpretativo della realtà talmente condiviso da divenire verità stabile per tutti. O almeno per tutti coloro che appartengono ad una stessa frangia, levatura, tipologia o specie.
In ogni caso, a prescindere dalle caste, la realtà, profondamente soggettiva, diventa oggettiva nel momento in cui la coscienza del singolo sconfina per intersecarsi con una o più altre coscienze. A quel punto il vissuto collettivo coagula in un ente terzo che precipita nella materia e crea i fatti.

La realtà sono i fatti.

E se le parole sono un annuncio, i fatti sono il vero treno che passa.
Dobbiamo sempre stare pronti a salire, a cambiare treno o a non partire proprio.

Ciao gattacci.

Documentari forever

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Dopo molti anni – ma molti – di radio, cd, libri e seghe mentali serali, lo scorso autunno ho acquistato un televisore.
Non ho ancora dimestichezza con quell’arnese.
Ci sono un sacco di canali. Io ero rimasta ferma a 6/7, ecco.
Prima di cena leggo su internet la programmazione alla ricerca di un film.
Poi, e vorrei sapere che siti guardo, una volta seduta sulla poltrona e pronta alla visione, spesso scopro che nel tal canale c’è tutt’altro.
Allora, per nulla padrona della situazione, ancora oggi, dopo mesi in cui per la maggior parte del tempo spolvero lo schermo spento, accendo la tv al canale 1 e poi al 2.
E poi al 3, al 4, e vado avanti sperando di incontrare qualcosa che possa interessarmi.
Stasera mi sono spinta in là come non mai e sono stata folgorata sulla via di Damasco scoprendo il canale 56. “FOCUS”.
Ho finito la cena, adesso.

Da grande voglio fare l’astrofisica e andare a caccia di buchi neri e raggi Gamma.
Nel tempo libero, filmare i castori canadesi della Patagonia mentre rosicchiano i tronchi
e fanno gara con il picchio rosso di Magellano e il suo compulsivo tic distruttore.
Adesso mi guardo tipo chilometri e chilometri di ghiacci, il condor delle Ande e anche qualche fenicottero.
E ciao.

Il Baldo

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Per fortuna ci sono giorni in cui esco da me stessa e esploro con leggerezza ed una specie di allegria il mio Io più grande.
Quello vero.
Che lagna! Come sono stufa delle leziosità dilaganti! Anche e soprattutto delle mie.
Come sono stanca del ritrito e delle clonazioni selvagge!
Come è vitale il mio corpo e come lo soffoco con una mente fuori moda!
Come è vicina la primavera e come capisco che reagisco al ritmo terrestre come una qualsiasi altra bestia.

Come sono stanca di pretendere da me condizioni originate da pensieri che non sono neanche miei!
Che senso ha potenziare il motore quando ancora non si va a pieni giri con quello che c’è?
E’ qui l’inghippo, l’equivoco, l’errore.
Aprire gli occhi e richiuderli subito perché realizzi lo spreco.
Aprire gli occhi ed abituarti alla nuova luce.
Che non è mai quella del giorno prima.

Piove. Mi aspetterei la neve. Ma ad essere sincera la mancanza del gelo è un sollievo.
Comunque al mio paese nevica. Mi mandano foto che fanno vibrare la radice.
I bastoni scuri dei vigneti che inquadrano il candore. Gli alberi bianchi, le distese candide.
Pare di sentirne pure il silenzio. E mi viene in mente una vecchia foto di mio padre.
Mio padre con un berretto di lana, i pantaloni e le scarpe da lavoro, mentre spala la neve.
Poi sposto lo sguardo fuori e torno. Scelgo dove mi trovo ora. Per il momento.
Il mondo è grande e abbiamo, relativamente parlando, così poco tempo.
Sviluppiamoci in lungo e in largo.

Quando la mattina percorro i pochi chilometri che mi separano dal lavoro, alla mia sinistra posso vedere il Baldo che si specchia sulle acque del lago.

Non posso fermarmi a fotografarlo. Primo perché ci vorrebbe una vera macchina fotografica. Secondo e non ultimo in ordine di importanza, sono sempre in ritardo.
Ci manca solo che mi metta a vagare in mezzo alla statale con gli occhiali sul naso e il telefono puntato in aria, alle 8 del mattino.
In certe mattine, la punta coperta di neve del Baldo, ad Est si colora di rosa.
E’ di una bellezza incredibile.
Bianco, rosa, poi lo scuro del monte e sotto infine, il lago che, in base alla luce, ai venti e alle correnti, ogni giorno mostra un volto diverso.
Ci sono giorni di increspature straordinariamente blu. Giorni, invece, in cui è uno specchio azzurro con gigantesche chiazze in tono, lentamente cangianti.
Ma anche – e spesso in questa stagione – giorni in cui si stempera in una densa lattiginosità al punto da cancellare i confini, nascondere il massiccio ed invadere il cielo.

Il Baldo si specchia sulle acque del lago.
Visto da qui è un triangolone regolare, stabile, possente e tranquillo.
E invece è una lunga cresta, che si sviluppa verso nord (più o meno).
Un dinosauro di roccia, di cui io vedo solo un’estremità.
Il Baldo come metafora della Verità, e della verità di ognuno di noi.
E adesso ciao.