Meri-Nut

Khepri aveva spinto Ra fuori dalla Duat e, miracolosamente, come ogni mattina
Nut nacque. Immensa, sconfinata, brulicante di vita. Nut che canta la Luce.
Nut la volta celeste, snella ed arcuata sopra le nostre vite.
Nut, nel mio Nome e nel mio destino. Meri-Nut, ‘amato da Nut’.

“Meri-Nut, sei in anticipo” disse il saggio Ka-Bak trovandomi seduto in mezzo agli alti steli di lino.
Ra splendeva appena sopra il mio orizzonte e il fiume dondolava ritmicamente le mie gambe.
“Ka-Bak parlami di Khepri. Perché un animale che rotola una palla di sterco diventa un Dio?”
“Khepri crea il sole come lo scarabeo crea la palla che nutrirà il suo seme. Quello che è stato scartato ed è – e pare! – morto, torna a rivivere in un altro modo, in un altro ciclo, potrei dire. Nulla muore veramente. Così il sole che sembra perire affondando, la sera, nella oscura Duat, rinasce il mattino con un nuovo giorno, con una nuova vita. Tutte è permanente. Tutto, soltanto, si trasforma”.
“Nella Duat ci sono i morti!”
“I morti non sono morti. Entrano nella Duat e rinascono a nuova vita. Come Ra. Guardati intorno Meri-Nut! Osserva la natura. Impara dalla natura e saprai di te. Osserva te stesso e saprai del cielo e della terra.”
Io non capivo proprio tutto ma mi fidavo. 
Ka-Bak si era seduto vicino a me. Immerse i suoi piedi nell’acqua. Poi li ritirò, si alzò e si allontanò dicendomi: “Khepri è il Cuore che trasforma”.
Chiusi gli occhi, toccai il ciondolo che avevo sul petto e lo premetti forte sullo sterno. Il sole scaldava la mia pelle, stavo bene. Sperai fortemente che Khepri aprisse il mio cuore.
Speravo che il cuore si aprisse, il velo si sollevasse, le paure bruciassero. Che morisse qualcosa per far nascere un’altra cosa. Non so bene cosa. Che i miei anni si moltiplicassero in un istante per comprendere tutto quello che a dodici anni non sapevo e potevo capire. 
Ka-Bak se ne andò lasciandomi intento in questa specie di ascolto che sembrava potesse trasformarsi, da un momento all’altro, nel tentativo di trovare un varco per un sapere che sentivo vicino ma al quale non riuscivo ad accedere.
L’acqua del fiume cantava con un debole gorgoglìo e i suoi riflessi attraversavano le mie palpebre trasformandosi in aloni di luce rossa e arancione, vivaci e cangianti.
Rimasi lì per molto tempo.
E quando riaprii gli occhi, ero un Uomo.

L’impiegata

Mi piace scrivere. Mi piace scrivere a mano, soprattutto.
Se fossi nell’antico Egitto potrei benissimo fare lo scriba.
Ma siccome non siamo nell’antico Egitto, posso solo fare l’impiegata.
La mia missione è fare l’impiegata che trascrive fedelmente e verbalizza, materializza idee, indicazioni e concetti di altri.
Sono la zappa delle superiori volontà, il braccio armato delle menti altrui, il meccanismo fedele e perfettamente funzionante che fa da ponte tra l’intelletto
e la materia.
Sulla scia del realismo di cui ho parlato ieri, direi che il mio lavoro è già
quello giusto. 
Inutile fantasticare chissà cosa.
Scrivere, trascrivere, fare  disegnini (mentre sono al telefono a spiegare le solite procedure, o a risolvere ingarbugli burocratici), fare tabelle, dividere carte, fare fotocopie, pinzare fogli, scrivere titoli in stampatello con la mia bella grafia
è quello che so fare meglio. E lo sto già facendo.
Mica scherzo.
Cosa vado cercando?
Soprattutto, perché mi sono messa in testa altro?
Qual’è la vera me?
Per fare il salto di qualità e superare una certa struttura genetica radicata fin nel midollo da qualche secolo, bisogna averci molta forza o essere unti dal Signore.
Poi, basta guardare i fatti.
“Avere quello che vuoi, volere quello che hai”.
Buona la seconda.

Liane come se piovesse

Anche quando facevo l’apprendista sarta, la cosa che mi piaceva fare di più
– in tutto il lavoro necessario per dare un senso e una forma alla stoffa –
era tagliare.
Mi piace da matti tagliare.
Non mi sono mai chiesta il senso di questa preferenza e continuerò a non chiedermelo. Perché non voglio più chiedermi un sacco di cose.
Voglio fare così come mi viene. 
Per pulire il bosco, tagliare è un’azione principe.
Ecco. Forse mi piace pulire. Fare pulizia, togliere il superfluo, l’inutile, rendere chiarezza e senso alla forma.
Chi entra in casa mia, non ci potrebbe mai credere.
Tagliare e pulire sono un obbiettivo. Il mio disordine e gli accumuli inveterati
sono la realtà presente. Va be’.
Armata di cesoie di ottima qualità e di roncola d’autore (quella di mio papà,
la sua personale), oggi ho fatto una delle cose più goduriose che esistano su questa terra: pulire il bosco.
A parte lo sfoltimento dei gruppi di piante giovani, l’eliminazione dei rami secchi, un po di restyling dei tronchi maestri e la feroce eliminazione dei rovi, il grosso del lavoro è stato quello della caccia ai ligaboschi.
L’azione catartica di tirare con forza quelle che da piccoli chiamavamo “le liane” da una soddisfazione infinita: tiri come un disperato (e ti sfoghi bene) e sei premiato da quel senso liberatorio pazzesco che insorge quando ascolti il rumore frusciante degli intrecci che si districano.
Tanto che se finisci per terra è uguale: ce l’hai fatta. L’hai tolta. La pianta respira, la luce irrompe di nuovo e subentra il senso profondo del dissipare un senso di oscurità.
In quel momento solo una cosa supera in intensità il piacere dell’aver strappato quella sorta di tentacoli vegetali: sapere che di lì a poco partirà  la ricerca e il successivo taglio della radice.
Ma la radice si eradica, non si taglia, mi direte.
Lo so. Ma il ligabosco non è una semplice pianticella. Il ligabosco è una rete, le cui basi serpeggiano appena sotto la superficie.
Il ligabosco è una trama nascosta, occulta, un sistema sotterraneo di espansione lenta, inesorabile e silente.
Le radici vere e proprie non sono troppo impegnative. Il problema è che il ligabosco si sviluppa per altri versi e la sua forza sta nell’enorme superficie che riesce ad infestare. Il ligabosco è una mafia vegetale.
Tutti gli sviluppi verticali che si abbarbicano sugli alberi, sono collegati gli uni agli altri. Tiri le fronde da un faggio e scopri che partono dalla base di un’acacia che campeggia qualche metro più in là.
Quando trovi la radice, in realtà non trovi una radice, ma un semplice punto di partenza. Le “liane” normalmente originano da un vecchio tratto tagliato più volte e incredibilmente irrobustito. Nascosto sotto il terriccio nero e profumato, come una nervatura infinita e maligna che pensi di non poter eliminare mai. 
A quel punto, anche se non risolvi definitivamente la questione, puoi darci un taglio!
E il piacere massimo delle cesoie che vincono, anche se solo temporaneamente, l’epopea infestante delle fronde è il top della giornata.
Arrivi al trancio grosso che spunta dal fogliame, spazzi via la terra, tiri. E tagli un primo collegamento. Poi tiri ancora. E tagli quello a fianco. E fai così fino a quando non ti sbilanci tirando e tagliando l’ultimo cordone.
Ti rimane un nodo in mano con quattro o cinque propaggini tranciate.
Sai che non l’hai vinto del tutto. Ma non hai fatto poco.

Alcune cose non si possono togliere completamente. Perché ormai ti hanno intessuto il cervello, le giornate, la vita.
Questa è la lezione del ligabosco.

Mi piacerebbe

Svegliarmi in tempo per vedere l’alba
e cogliere quel silenzio vergine del primo mattino
e uscire di casa con già dentro una storia.

Traghetti cinesi

Sarà propizio attraversare la Grande Acqua?
Perché non ne posso davvero più.
E sto per farlo sul lavoro, anche se mi limiterò ad usare un traghetto.
La forza per il nuoto non ce l’ho ancora.

Tra il dire e il fare

Sono andata in giro dicendo, specie negli ultimi tempi, che Dare è più bello che ricevere.
Non so se involontariamente faccio opera di autoconvincimento e poi – e solo POI – ci credo, o se ho una specie di autoprecognizione.
Fatto sta che dopo essermi annunciata la scoperta di tale verità, ho toccato con mano più volte che è tutto vero.
Funziona proprio così.
Vuoi bene a qualcuno e lo stesso amore che elargisci nutre anche te.
Anzi, nutre soprattutto te.
Cerchi di aiutare qualcuno e il godimento che ne deriva ti riempie e ti fa esplodere come una cornucopia enorme, esagerata, sfrontata.
La compassione ti avvicina ad un’osservazione estatica della vita.
La generosità ti rende oggettivamente immenso.
L’Amore ti da la bellezza più bellerrima che c’è.
E notare bene che, se per caso dalla parte ricevente non arriva nulla in cambio,
E’ LO STESSO. Fa niente. E’ uguale.
Insomma, è veramente tutto dentro di noi.
Anche gli Altri sono dentro di noi.
Va bè, ragazzi. Un altro momento santo.
Di questi tempi tenetevelo stretto che qui si cambia come il vento.

Intolleranze

Il Gatto cambia vestito perché tutto le va stretto.

(Madonna come piove.)

Wireless Cat

In un periodo terrificante come questo, anche il bianco candore e la geniale prestazione di un piccolo aggeggio che mi permette di scrivere dalla terrazza sono un qualcosa di divino, un lampo nel buio, una bolla di gioia, una soffusa soddisfazione.

Posso scrivere ogni cosa inframmezzandola con pigri e meditabondi sguardi sugli alberi. Con occhiate distratte in cortile. Con ispirate e sentite suppliche visive al cielo.
Non è un figata?
Il vostro Gatto Senza Fili…

Essere nella Rete

Ho un processore potentissimo, un case robusto ed elegante, miliardi di dati a disposizione ed un’infinità varietà di programmi.
E sono ancora qui, a cercare la presa di alimentazione.

Grossa falla a prua dell’autonomia

Il cancello, inguardabile ormai, da verniciare.
L’anta della credenza antica rimastami in mano.
La presa telefonica da spostare.
La luce del bagno che fa guizzi psichedelici e che minaccia tempeste elettriche da settimane.
Muri da tinteggiare. Tanti muri da tinteggiare.
Le mappe del portoncino di ingresso che cigolano e la guarnizione del medesimo che va per i fatti suoi.
La presa elettrica da aggiustare.

A parte la presa telefonica, potrei risolvere tutto con un po’ di impegno e di pazienza.
Ma mi rifiuto.

Rivolta contro il mondo moderno: un Marito è indispensabile.
Necessito di uomo sveglio e capace.
O titolare di ipertrofici conti svizzeri.
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Bene. Le sopracitate righe erano, fino ad un minuto fa, una bozza parcheggiata da due giorni dietro alle quinte del blog.
Poi, stasera, una serata piacevolissima di lettura e musica organizzata in antico e pregevole palazzo della città, che aveva come ospite la Dott.ssa Gianna Schelotto, ha slatentizzato il tutto rivelandosi un eclatante esempio di sincronicità di Junghiana memoria…
Il titolo del libro presentato dalla stessa autrice è “Un uomo purchè sia. Donne in attesa dell’amore”. Facile immaginare i contenuti discussi.
Ecco. Ho pensato che con quel “Ma mi rifiuto” scritto più sopra tra il serio ed il faceto ho tradito un aspetto di me molto più sottile, soffice e profondo di quanto non la sia la drammatica ed urgente necessità di un Domestico attivo e capace.
UFFAAAAAAAAAAAAA
Buona notte Gatti tutti.